materiali sulle arti a genova, 1960-2018





1976: INSTALLAZIONE DI DANIEL BUREN IN GALLERIA MAZZINI
di Sandro Ricaldone

 

Di galleria Mazzini come luogo elettivo e come scenario ricorrente nella vicenda culturale genovese d’inizio secolo già hanno discorso in termini ampi e documentati - Stefano Verdino per ciò che attiene al coté letterario nonché, sotto un profilo invece più strettamente connesso alle arti visive, Germano Beringheli.
Ed una sorta di postilla alla sua relazione vuol essere questo mio intervento: nient’altro che un circoscritto aide-memoire a proposito d’un evento di cui la galleria è stata, in anni ancora abbastanza recenti, teatro e - se così può dirsi - protagonista.
Intendo riferirmi all’installazione (o “lavoro in situ”, secondo la definizione stessa dell’autore) realizzatavi nel dicembre 1976 dall’artista francese Daniel Buren.
La manifestazione, promossa, dall’Associazione fra librai che tuttora dà vita in galleria alla Fiera del Libro, riveste un’importanza affatto particolare giacché all’epoca non esisteva in città (se si esclude l’offerta, limitata comunque ad una cerchia di fruitori specializzati, proveniente dal circuito delle gallerie) alcuna iniziativa che permettesse al pubblico nel suo insieme un contatto immediato, anche se certamente occasionale, con l’arte contemporanea.
Non molto diversamente, del resto, da quanto accade oggi, benché a partire dalla gestione Sartori dell’Assessorato alle Attività culturali del Comune gli svolgimenti artistici odierni abbiano acquisito una ben diversa. presenza nel panorama culturale cittadino, grazie ad attività continuative ed alla creazione di talune strutture di base fra cui il museo che ospita questo convegno.
L’allestimento di Buren – suggerito da Germano Celant e da Ida Gianelli, direttrice della Samangallery e curato dalla libreria Sileno - venne materialmente predisposto nel magazzino di un distributore librario genovese (Gian Paolo Mazzarello) che svolgeva la propria attività in via Stefano Turr.
L’installazione si inserisce nel quadro di quella che il tempo ha confermato essere una delle linee portanti (forse la principale) dell’attività di Buren: la riflessione sulla reciproca “appartenenza” dell’opera e del luogo (o dell’architettura) in cui essa s’inscrive.
Si tratta di una riflessione che, muovendo dai principi che avevano informato, alla fine degli anni ’60, l’azione del gruppo BMPT (Buren, Mosset, Parmentier, Toroni) – vale a dire, sintetizzando sommariamente: rigetto dell’espressività, della rappresentazione de del “gesto” pittorico; messa in risalto dei meccanismi della pittura; analisi del contesto in cui la pittura viene esibita e del “quadro”, ovvero del supporto come “oggetto da rispettare” – l’artista aveva abbozzato in testi teorici assai noti, quali “Limites critiques” (1970) e portato a definizione in uno scritto (“Una ragnatela”, 1975) di poco anteriore al lavoro di cui si va ragionando.
In quest’ultimo, Buren, dopo aver rilevato come – a partire dal Rinascimento – l’inclusione di elementi architettonici illusori nel dipinto ne abbia prodotto il distacco dall’architettura intesa come luogo dove l’opera si produce, conclude: “Coinvolgere nell’opera il luogo in cui essa si trova (comunque sia, interno o esterno) significa darne materialmente e visivamente, senza scappatoie. I limiti”.
Viene così posto in essere “un rapporto conflittuale in cui le due parti ‘si provano’ in vista di una differenza”.
“Chi dice architettura – argomentava allora Buren – dice contesto sociale, politico, economico. Non c’è più architettura adatta all’opera d’arte che si possa concepire senza dover passare per l’architettura adatta al luogo in cui essa è esposta. Da qui l’impossibilità di concepire un’opera al di fuori del luogo in cui essa verrà esposta”.
Il lavoro, progettato quindi espressamente per l’ambiente pubblico, di transito, della galleria, constava di una sequenza composta da diciassette tele quadrate (in lino, di cinque metri per cinque), a bande verticali, sospese – ad intervalli regolari – in corrispondenza degli archi metallici che sostengono la volta in vetro.
I colori utilizzati erano cinque (in sequenza alfabetica: arancio, blu, marrone, nero rosso); in questo medesimo ordine erano disposte le tele, partendo dall’ingresso prospiciente il Teatro Carlo Felice, a gruppi composti da 3-4-4-4-2 elementi, cromaticamente omogenei sebbene difformi sotto il profilo numerico, posto che il numero degli archi (34) e la necessità di stabilire la visibilità dell’insieme non consentivano altra soluzione.
Secondo il resoconto pubblicato nel notiziario periodico della Samangallery (n. 8, gennaio-febbraio 1977) “la struttura particolare della galleria, lunga circa 180 metri ed in pendenza, con due entrate allineate agli estremi, permetteva due diverse visioni del lavoro: una visione per cinque blocchi e l’altra per tutte le 17 tele. L’opera si integrava sia con l’architettura della galleria che con le attività che vi si svolgevano quotidianamente, senza provocare alcun tipo d’interferenza”.

Immagine: Daniel Buren (a sinistra) durante la preparazione dell'installazione. A destra Mario Romano (Libreria Sileno).

 

 

in occasione del Convegno "Transiti velati", a cura di Carlo Romano, Villa Croce, 1989