materiali sulle arti a genova, 1960-2018





CLAUDIO COSTA E IL MUSEO: DA MONTEGHIRFO (1975) A QUARTO (1992)
di Sandro Ricaldone


 

L’attrazione per il Museo è una costante nel lavoro di Claudio Costa.
Inizialmente impiegato come fonte di dati (esemplare il caso del rapporto con il Museo di Wellington per la serie sui Maori) diviene in breve una modalità strutturante dell’opera, analogamente alla scienza, o meglio a una certa disciplina scientifica, con le sue classificazioni, le campionature. Questo naturalmente con l’avvertenza posta da Wolfgang Becker (citata nel catalogo) secondo il quale le opere di Costa “soggettivano l’atteggiamento dello scienziato naturale e generalizzano una problematica disciplinare. Una sorta di mimesi rovesciata, per cui – come ha rilevato Enrico Pedrini “non è la scienza che entra nel campo dell’arte ma questa si serve dei codici scientifici per rappresentare oggetti e documenti, restituendoli al loro originario rapporto con l’umano”.
Il Museo diviene per Costa una sorta di schema operativo, oltre che un vero e proprio emblema. Adoprato in un primo tempo su scala ridotta, come (per usare una figura della retorica classica) in forma di sineddoche, la parte per il tutto (l’armadio o la vetrina da esposizione diventano tout court Museo: Museo dell’Uomo (come più tardi Museo dell’Alchimia) con un effetto peculiare di concentrazione di senso che non manca di un risvolto simbolico.
Con l’esperienza di Monteghirfo si potrebbe dire che il Museo dai cieli della virtualità scende sulla terra, assumendo la dimensione fisica di un luogo determinato e, grazie a questa nuova connotazione, acquisisce una nuova valenza, da un lato tesa a “consacrare” l’insieme di contenitore e contenuti, dall’altro volta a costituire un dispositivo, a definire un perimetro che consente di mettere a fuoco una problematica specifica che - al di fuori di una delimitazione, di un recinto - andrebbe dispersa fra le molteplici articolazioni dell’ambiente culturale e sociale.
Nel caso di Monteghirfo - questa antica, povera, casa di contadini della Val Fontanabuona, trasformata in Museo da Costa e da Aurelio Caminati - l’obiettivo è quello di identificare un ambiente che, per le sue caratteristiche originarie, permetta di comprendere, forse sarebbe meglio dire “provare” dal vivo la relazione tra l’uomo e l’oggetto, un oggetto che è “fatto” materialmente fabbricato dall’uomo, ma che in prosieguo ne condiziona e ne sviluppa l’esperienza quotidiana, il lavoro, e in definitiva la vita.
Scrive Costa “l’ambiente a Monteghirfo è, ora e originariamente, aperto e attivo, disponibile per accogliere in progressione, altre idee funzione. L’operazione di museificare una casa contadina si differenzia, per lo scopo e i risultati, da altri apparentemente simili (raccolte private, conservazioni ab integro, case di artisti famosi ecc.) Essa non considera l’oggetto importante, emblematico o commemorativo; qui l’idea consiste nella identificazione di cose semplici, quasi sempre di lavoro, in rapporto strutturale e necessario con l’uomo e con uno spazio che fu abitato dall’uomo. L’idea era di utilizzare uno spazio che si manifestasse eloquente per la coscienza, la conoscenza, la consapevolezza della vita e fosse supporto ideale per una verifica sulla memoria delle cose. Apparentemente passive, le cose divengono attive perché è ala loro capacità di comprensione della natura a renderne possible la riassunzione a corpus completo con l’ambiente che le circonda”.
Insomma come nel work in regress (e qui vale la pena di notare come anche nel caso del Museo di Monteghirfo Costa abbia operato per antitesi, in questo caso con Duchamp che trasferisce l’oggetto nel Museo per costruire il Museo attorno all’oggetto) c’è nell’operazione del Museo attivo di Antropologia la ricerca di un riverberarsi dell’originario sul presente e sul divenire, di una risonanza che restituisca un senso più profondo e più ricco, un nucleo fondante dell’esperienza umana di sempre. Analogamente nel Museo di Monteghirfo troviamo la ricerca di un’attivazione di un patrimonio culturale in procinto di scomparire, attraverso gli oggetti, gli strumenti, che ne serbano vivente la memoria.
Diverso, anche se non del tutto, è il caso del Museo attivo delle Forme Inconsapevoli. Diverso anzitutto per il contesto materiale (una struttura psichiatrica in corso di smantellamento); diverso come origine perché si sviluppa intorno a una pratica più che intorno a un nuovo progetto, intorno all’Atelier di Arteterapia o di Tecniche Espressive, come si preferisce chiamarlo ora. Diverso perché i partners non sono artisti ma psichiatri, operatori culturali, politici.
Anche qui però al fondo Costa, proprio come era accaduto a Monteghirfo, utilizza il Museo per porre un problema: quello della natura originaria del lavoro artistico, articolandolo sulla nozione di “inconsapevolezza”, che gli serve per superare la barriera fra Art Brut e Arte non diciamo ufficiale ma “riconosciuta” (tra l’altro ci sarà poi un esito sorprendente, quello dell’acquisizione di opere di Costa da parte di collezionisti rigorosamente di Art Brut). Questa presa di posizione lo porterà al centro di una polemica molto vivace con alcuni critici e storici dell’arte, con conseguenti rotture insanabili.
Per Costa infatti è nell’inconsapevolezza che sta il quid, il suono interiore che la pratica creativa contiene, al di là dei giudizi di valore, e che le consente di raccontare il mondo “forse dalle sue origini”, mentre per i suoi oppositori non esiste arte senza consapevolezza.
È senz’altro una casualità, ma nello stesso tempo è un fatto estremamente significativo che nell’Atelier di Quarto il percorso di Claudio Costa incroci quello di Davide Mansueto Raggio, un degente-artista (un artista-ricoverato) che proviene proprio dal mondo contadino della Val Fontanabuona, che riesce a interpretare, con le sue Furie, i Pinocchi, con i rami e le foglie, con l’argilla “sassomatto” quelle presenze ancestrali che lo stesso Costa in quel periodo andava evocando attraverso le sue impressionanti figure totemiche.

 

 

(Galleria Michela Rizzo – Venezia 17/12/2014)