materiali sulle arti a genova, 1960-2018





2001: DIBATTITO SU VILLA CROCE
di AA.VV.


 




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VILLA CROCE, L’ARTE LIGURE FA IL PUNTO
Sandro Ricaldone (Il Secolo XIX, 26 gennaio 2001)

Quindici anni d’attività, più di cento mostre, un patrimonio di tremila opere raccolte in prevalenza tramite donazioni.
Di queste, un migliaio costituiscono uno dei più importanti fondi d’arte contemporanea genovese oggi esistente. Dato un simile presupposto, risulta del tutto naturale che, concluso il Novecento, il Museo si dedichi a definire un quadro complessivo delle acquisizioni e delle ricerche svolte in quest’ambito, divenuto negli ultimi anni – anche per effetto della concentrazione delle mostre temporanee a Palazzo Ducale - il nucleo centrale della sua missione.
Lo fa, come d’uso, con una mostra che riunisce lavori di matrice pittorica di trentanove artisti attivi in Liguria e con un catalogo, edito da Silvana, che riporta le schede delle opere di ogni singolo autore presente in rassegna, conservate nei depositi.
Dispiace perciò - sebbene sia scontato l’impegno a colmare i vuoti - che la mostra si presenti come un mosaico non terminato.
La generosità di molti artisti o dei loro eredi e la disponibilità dimostrata da alcuni galleristi non impediscono di notare come le tessere mancanti siano ancora molte. Clamorosa quella di Scanavino, provvisoriamente rimpiazzata con il prestito di un’opera proveniente dalla collezione di Gian Piero Reverberi, ma significative anche diverse altre, in particolare sulle aree geografiche spezzina e savonese, od in tema di informale naturalistico e di poesia visiva.
La mostra comunque è tale da smentire l’idea corrente, secondo cui l’arte prodotta in Liguria nella seconda metà del secolo appena concluso rivestirebbe tratti di provincialismo.
Delle figure di riferimento in tendenze internazionali come Scanavino per lo Spazialismo, Fieschi per la Nuova Figurazione, Martino Oberto per la Scrittura Visuale e Claudio Costa per l’Arte antropologica non è necessario dire. Ma lo stesso vale per il contributo di Mesciulam nell’ambito del Movimento Arte Concreta, testimoniato da composizioni del 53/54, ancor oggi attualissime, che avrebbero potuto insegnare qualcosa ai gruppi milanesi e torinesi, o magari ai coevi concretisti svizzeri; per il virtuosismo e gli apporti tecnici esibiti da Caminati negli iperrealistici "volti-nazione", o ancora per i "guard rail" realizzati da Borella nei primi anni ’70, con un occhio puntato sull’arte optical e l’altro sulla segnaletica pop.
Negli spazi del Museo, dalla mansarda ai fondi, la mostra si articola in comparti scanditi cronologicamente, nei quali le opere ispirate a correnti diverse sono accostate in base a criteri di compatibilità o giustapposizione formale.
Così nel settore dedicato agli anni ’50 convivono il geometrismo dinamico di Mesciulam, l’informale di Allosia, la "tabula rasa" anaestetica e la ricerca di espressività primaria del segno di Martino Oberto.
Alle soglie del successivo decennio s’incontrano la rielaborazione del paesaggio di Chianese e gli approdi informali di Fasce e di Raimondo Sirotti (quest’ultimo presente con il tenue e bellissimo "Rosa gremito di luce" del 1961).
Gli artisti di Tempo 3 (Bargoni, Carreri, Esposto, Guarneri, Stirone) rendono la misura di un astrattismo in cui razionalità e lirismo trovano esiti esattamente equilibrati, mentre Corrado D’Ottavi è solo a documentare la declinazione poetico-visiva incentrata sul ribaltamento critico delle tecniche proprie dei mezzi di comunicazione di massa.
Gli anni ’70 vedono allineate, oltre alle ricerche antropologiche di Costa, la variante poveristica di Beppe Dellepiane e i "percorsi umani" ricostruiti con foto e diagrammi da Luisella Carretta.
Appena una traccia della ricca fioritura degli anni ’80 nella tavola di Giuliano Menegon dedicata a "La casa dei doganieri" di Montale e nella sequenza di griglie animate da piccoli nodi rossi e neri di Enzo Carioti, cui fanno contrappunto il vitale iperdecorativismo di Antonio Porcelli e la intrigante installazione di Angelo Pretolani intitolata "Vive le cannibalisme", una fascina avvolta nella bandiera italiana sotto la scritta "sopravvivo al rogo, ebro d’immortalità".
S’incrociano nella sezione riservata all’ultimo decennio i lunghi, cupi totem di Lamberto Pellegrini, le sapienti ambivalenze fra immagine e informe di Roberto Merani e di Pietro Geranzani, gli interventi fotografici di Lucrezia Salerno.
Chiudono la rassegna le silenziose pagine del "Libro", istoriato in vetro su metallo da Piergiorgio Colombara,e la installazione di Loredana Galante che fonde un suono monocorde al fremito di piume multicolori racchiuse in teche attraversate da flussi d’aria compressa.


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GENOVA, PERIFERIA DELLA CULTURA VISIVA
Paolo Minetti (La Repubblica, 2 febbraio 2001)

Ho letto con attenzione l'articolo di Matteo Fochessati apparso sulle pagine genovesi de La Repubblica il 31 gennaio riguardante la mostra in corso a Villa Croce. Naturalmente ho preso visione anche degli altri articoli apparsi sulla stampa cittadina su tale argomento. In genere i contenuti degli interventi sono apparsi meno prudenti e assai più polemici di quello redatto da Fochessati.
Debbo subito affermare che le polemiche anche quando non sono pienamente motivate acutizzano il mio interesse come presumo quello di chiunque abbia a cuore questa tematica assai negletta nella nostra città. I toni di esasperata condanna (non è il caso di Fochessati) sviluppati da alcuni critici sulla base delle inclusioni e delle esclusioni, non mi paiono strettamente pertinenti. Già il titolo della mostra «1950-2000 arte genovese e ligure delle collezioni del museo d'arte contemporanea di Villa Croce» ne definisce i confini. Il problema converge, a mio parere, proprio su questo argomento; vale a dire le regole per la formazione di una collezione adeguata ai tempi e alla realtà che ci circonda; con attenzione e rispetto, sì, al passato ma guai a non rivolgere un occhio al futuro come assai propriamente si puntualizza nell' articolo.
Lo stesso direttore del museo lamenta, nel suo esaustivo testo introduttivo, in materia di acquisizioni, la estrema scarsità di mezzi in cui versa la struttura che dirige. Ed è ancora lui, anche se in modo indiretto, a segnalare un fatto che agli addetti ai lavori balza subito agli occhi e che cioè gli artisti vistosamente esclusi dalla rassegna, sono gli stessi dai quali non è pervenuta alcuna donazione.
Io rimango convinto che sia il lato economico-finanziario a garantire la libertà delle scelte di un direttore artistico. Garanzie che nel nostro caso da quanto risulta, vengono completamente a mancare.
Gli appuntamenti che la città di Genova ha messo all'ordine del giorno sono assai impegnativi e la cultura, sulla carta, vi occupa un posto di grande rilevanza. Si osa sperare che un'idea di come muoversi da qui al 2004 quando la città assumerà la veste di «capitale della cultura», gli amministratori se la siano posta e si immagina sappiano come dovranno operare.
Le aspettative intorno al museo di Villa Croce sono state a suo tempo ridimensionate dalla presenza attiva di Palazzo Ducale. Non è detto però che altre iniziative non possano subire ulteriori amputazioni.
È lecito dunque chiedersi da subito, cos' è in buona sostanza questo museo più ancora di cosa sarà. Voglio invece ribadire che Villa Croce è attualmente l'unico museo d'arte contemporanea e lo è in un contesto storico assai diverso da quello in cui era nato per volontà del suo fondatore, mai dimenticato, professor Attilio Sartori.
Allora in città operavano prestigiose e attivissime gallerie private, oggi scomparse. Il punto, a mio parere, è proprio questo. La città è assai carente sul versante dell'attività imprenditorialculturale, soprattutto nel settore specifico della comunicazione visiva e disattenta a tutto quello che nel mondo sta avvenendo.
Per quanto riguarda la contemporaneità visiva l'Europa si è velocemente attrezzata ma Genova ci appare indicata fra le estreme zone periferiche attardata nelle retrovie, grigie e sconosciute.
Penso però che il museo di Villa Croce, preposto all' arte contemporanea, debba essere sostenuto affinché riprenda a funzionare a livelli auspicati al momento della sua fondazione. In seguito se altre iniziative movimenteranno l'assetto culturale cittadino si potrà disquisire sul suo futuro non tanto per ridurne le capacità organizzative (che vanno invece potenziate) quanto per precisarne i compiti. Oggi la struttura museale in questione, ripeto, è l'unica nella nostra città ed è bene che tutti coloro che operano su questo versante e hanno semplicemente a cuore l'arte contemporanea, non se ne dimentichino.


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SENZA MEZZI PER LE ACQUISIZIONI, NON C'È FUTURO
Anna Costantini (La Repubblica, 4 febbraio 2001)

Non è mia intenzione entrare nel merito delle specifiche scelte che hanno motivato la mostra «1950-2000 Arte genovese e ligure dalle collezioni del Museo d'arte contemporanea di Villa Croce».
Credo fermamente, infatti, che le scelte, in quanto tali, debbano essere espressione di colui che si prende la responsabilità di farle e che ovviamente sarà pronto a difenderle agli occhi del pubblico come degli addetti ai lavori.
Non mi è chiaro però, quanta libertà ci sia stata nelle scelte del direttore di un museo che, leggo proprio nelle pagine di questo quotidiano, ha una previsione di spesa di pochi milioni all'anno e che, di conseguenza, non si può dire abbia una politica acquisitiva, vale a dire la possibilità di comprare opere, se si esclude l'acquisto iniziale della Collezione Ghiringhelli (non molto genovese, né ligure, direi).
Non c'è possibile commento per una situazione di questo genere e, da un punto di vista strettamente tecnico, forse Villa Croce non si potrebbe neanche considerare un museo in senso stretto.
Mi preme invece sottolineare un aspetto essenziale e peculiare di questa situazione: giustamente Matteo Fochessati ha spostato il problema, nel suo intervento, in una dimensione più ampia, che implica dei giudizi su quella che viene indicata come «politica culturale» della città di Genova.
Ma cos'è la politica culturale di una città se non l'espressione proprio delle forze che sono in campo nella città stessa? E dove sono queste forze nella nostra città? Non mi sento di aspettare che la politica culturale della mia città mi arrivi solo da un assessore, nel migliore dei casi messo lì perché è un buon amministratore, un buon organizzatore (non succede quasi mai, come ben sappiamo, ma noi ci speriamo sempre).
Io credo che sia importante che un assessore senta la pressione di persone che la città la abitano e che si aspettano di vedere, di ascoltare, di usufruire di un certo tipo di servizi che hanno a che fare con la propria vita.
Ma chi è il genovese che sente che per esempio l'arte contemporanea fa parte della propria vita o di quella dei propri figli e del loro futuro?
Dove sono i nostri possibili trustees, cioè quelle persone che, nel resto del mondo, si fanno belli, avendone i mezzi economici e l'autorità, di far parte di un consiglio d'amministrazione di un museo?
Dov'è l'impegno dei singoli per il famoso «bene pubblico» o anche solo per sostenere delle idee?
Certo, i nostri musei funzionano diversamente, i problemi legati ai meccanismi burocratici italiani non aiutano a rendere più partecipi i privati e comunque il rapporto pubblico privato è quasi sempre pieno di insidie. Ma cerchiamo di essere il più consapevoli possibile.
Contiamoci, vediamo quanti siamo e chi siamo in questa città a chiedere qualità, contenuti, informazione, quanto siamo disposti a mettere in campo in termini di investimenti personali di ogni tipo, magari senza quello che chiamano «ritorno» («ritorno», «evento»: spariranno mai dal vocabolario?) in vista di questo o quello, che sia una Capitale della Cultura o un G8, ma solo per la banale soddisfazione di fare le cose come andrebbero fatte, ogni giorno.
E poi ne riparliamo.


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CONTRO IL LOCALISMO DEL MUSEO
Vittorio Dapelo (La Repubblica, 4 febbraio 2001)

In margine all' articolo di Matteo Fochessati del 31 gennaio 2001, desidero intervenire nel dibattito riguardante Villa Croce e il futuro dell'arte contemporanea a Genova. Pur essendo grato all' autore dell'articolo per aver messo a fuoco il problema, non posso non esprimere la mia sorpresa per il fatto che dopo 15 anni di attività espositiva, ancora vi sia la voglia di dibatterne.
Ciò che è oggi Villa Croce, era già chiaro, sin dall' inizio. Vantarsi di possedere una zavorra di 3.000 opere, quando sarebbe sufficiente averne 10 fondamentali, esprime di per sé la filosofia che sta alla base del lavoro svolto.
Ammettendo che possa ancora essere interessante occuparsi di fenomeni locali, dove sono gli artisti genovesi protagonisti della recente storia dell'arte: Giulio Paolini, Emilio Prini, Vanessa Beecroft?
La responsabilità di aver tenuto la città isolata dagli eventi contemporanei internazionali lascia senza parole: quanti giovani artisti avrebbero potuto crescere in modo diverso se fosse stato loro offerta la possibilità di entrare in contatto diretto con la cultura mondiale?
Solo poche, traballanti gallerie private hanno svolto questo ruolo, con il limite della loro funzione, che è quello di essere strutture commerciali e non didattiche.
Pur non comprendendolo, rispetto il punto di vista di chi è interessato a catalogare le scuole artistiche di Boccadasse, di Prà, di Camogli, di Molassana o di Struppa.
In questo rispetto ritengo che Villa Croce abbia l'obbligo di coltivare la sua vocazione vernacolare, come archivio e memoria degli eventi artistici locali. Che altri spazi abbiano la responsabilità di aprire verso le idee del mondo contemporaneo.


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MA IO STO CON GLI AUTOCTONI
Miriam Cristaldi (La Repubblica, 4 febbraio 2001)

Per effetto della globalizzazione oggi siamo eletti «cittadini del mondo». Attraverso la fitta rete delle comunicazioni siamo infatti proiettati in tempo reale in qualunque parte dell'universo: dove arriva l'occhio (elettronico) della telecamera o del computer, là siamo anche noi. Proprio in virtù di ciò nascono oggi nuove esigenze. Quello che da un lato ci rende «onnipotenti» e «onnipresenti», dall' altro ci annichilisce, ci fa sparire nel labirinto di questa comunicazione mass mediale e risucchiare nel buco nero dell'anonimato. Da qui prende avvio una consequenziale perdita d' identità: i segni significanti che connotano un luogo, una persona, un oggetto si annullano a favore di dati memorizzati dalle intelligenze artificiali.
Paradossalmente, più aumenta questo tipo di comunicazione, maggiore si fa la solitudine umana. A fronte di ciò, e per evitare la spoliazione dell'essere, si fa urgente la necessità di difendere le «differenze»: qualità che connotano e definiscono l'identità.
Infatti mai come oggi si sono risvegliati interessi specifici che definiscono questo o quel luogo come; per esempio, le specialità culinarie, la riscoperta dei singoli dialetti o le esplosive violenze per rivendicazioni etniche, ecc.
Non vedo perché in arte bisognerebbe invece spazzare via i localismi a favore di millantati internazionalismi. E qui vengo al sodo riferendomi alle polemiche di questi giorni riguardanti le collezioni genovesi e liguri degli ultimi cinquant'anni raccolte dal museo d'arte contemporanea di Villa Croce esposte in una mostra retrospettiva per celebrare i quindici anni di vita dell'istituzione.
A questo proposito ritengo importante che si continui a «riconoscere» le istanze artistiche nate, o che nasceranno, nella nostra terra, non mancando però di accostarle ad altre esperienze similari che avvengono intorno e al di là dei nostri confini.
Si potranno così mettere a confronto le nostre esperienze con quelle nazionali ed internazionali, primo per non rimanere avulsi dalla scena dell'arte, secondo per cogliere (nella comparazione) quelle «differenze» che permettano di «riconoscere» questa o quella regione, stato, economia, religione o società.
Per ciò che riguarda le acquisizioni delle collezioni il discorso si fa dolente: ci vorrebbero altre possibilità finanziarie e soprattutto bisognerebbe acquisire nuove mentalità manageriali fondate sulle sponsorizzazioni.
Quando cioè si progetta una mostra è necessario individuare «prima» lo sponsor, magari (e soprattutto) spostandoci anche fuori dai nostri confini.


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UN'OPERAZIONE ORIGINALE SUL TERRITORIO
Plinio Mesciulam (La Repubblica, 6 febbraio 2001)

Gli artisti genovesi (e liguri) dell'ultimo cinquantennio, sono a quanto pare, figli di un dio minore poiché nessuno di loro ha raggiunto, nemmeno alla lontana, per una singola opera la cifra di 100 milioni che, per alcuni galleristi di New York, è lo sbarramento al di sotto del quale un pezzo d' arte non ha il diritto di essere preso in considerazione.
Facile, quindi, trattare questi artisti da «provinciali», «fuori dal mondo» ecc.
Un coro, quindi, sembra, a dire di Stefano Bigazzi, di critiche negative alla mostra di Villa Croce.
Vorrei notare che hanno fatto eccezione Sandro Ricaldone sul «Secolo XIX» e Rossana Bossaglia sul «Corriere».
Anzi, quest' ultima si domandata il perché tanta arte in Liguria sia rimasta in ombra data la bellezza della mostra in corso.
I critici che hanno soltanto citato le «assenze» senza dire una parola di ciò che è esposto, mi sembra abbiano pescato malignamente nella palude delle frustrazioni.
Quelli che hanno tacciato il Museo di non essere «internazionale» ingrossano il coro dei «globalisti» i quali non sanno che proprio dagli esperti di questa tematica ci viene detto che è proprio la globalizzazione a rivalutare e suscitare le operazioni sul territorio.
Villa Croce, in questi ultimi 15 anni, ha compiuto un'operazione originale sul territorio.
Giubbini e Solimano avranno commesso errori, messo i piedi in qualche tagliola, ma il complesso del loro lavoro è stato meritevole per la città, ad onta di ogni invidia e supponenza.
Questo attacco concentrico a Villa Croce non odora di nobiltà.


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LA POLEMICA SU VILLA CROCE HA RIAPERTO IL DIBATTITO SULL'ARTE CONTEMPORANEA
Matteo Fochessati (La Repubblica, 17 febbraio 2001)

Il dibattito scatenato dalla discussione sulla mostra attualmente incorso a Villa Croce ha avuto certamente un merito: a Genova si è tornato a riparlare di arte contemporanea. E di questo, io credo, dobbiamo essere tutti felici.
Che poi i pareri non siano tutti concordi, questo mi pare scontato e salutare, semmai sarebbe negativo il contrario. In ogni caso sembra che da tempo le pagine dei giornali locali non fossero così concentrate sulle problematiche relative alle più recenti tendenze artistiche.
E questo è bene perché negli ultimi anni Genova non ha certo brillato per attenzione nei confronti dell'arte contemporanea e non solo per scarso riguardo da parte dei giornali che, d' altra parte, si limitano solo a registrare quanto in realtà accade. Questo disinteresse verso il contemporaneo non è certo dovuto alla mancanza di artisti attivi nella nostra regione.
E con questa affermazione vorrei porre fine ad un dibattito di cui probabilmente sono responsabile, ma che comunque intendevo dovesse essere esteso ad un contesto più ampio.
Sono infatti convinto che esiste a Genova e in Liguria un fermento artistico, strutturato in esperienze ormai consolidate e in ricerche emergenti, qualitativamente interessante e degno di confrontarsi con il più generale contesto nazionale. Sono comunque altrettanto convinto che manchino a Genova le strutture adeguate, in ambito pubblico e privato, per sostenere questo impegno nell' ambito della ricerca contemporanea.
Sulla controversia tra i due termini «localismo» e «globalizzazione» non vorrei perciò più di tanto soffermarmi.
Mi sembra tuttavia incontrovertibile che per molti artisti, giovani e meno giovani, l'approdo ad un'audience e ad un mercato esterni alla nostra regione sia generalmente in grado di offrire opportunità a noi sconosciute. Per i migliori tra quelli che hanno scelto invece di muoversi da casa, per una sfida alla chiusura culturale della città (e mi parrebbe retorico e stantio) o semplicemente per continuare a godersi il mare (un'intenzione, a mio parere, più ragionevole), comunque vada, sarà successo. Il problema, infatti, al di là dei giudizi di merito sugli artisti, è quello relativo alla ricettività di Genova nei confronti della cultura del contemporaneo.
E se ciò può consolare, mal comune mezzo gaudio, mi sembra che anche altri settori non godano di maggiore considerazione. Parliamo del design, ritenuto ancora come una cosa che si fa a Milano o, al massimo, come trasgressione civettuola da coltivare nelle pagine delle riviste femminili, ma si pensi alla proverbiale attenzione genovese all' architettura contemporanea. Si prova ancora un senso di sbigottimento quando si passa di fronte a Corte Lambruschini e si scorge un piccolo clone dello stesso edificio, al posto del Mercato dei Fiori di Paride Contri. Uguale risentimento al ricordo dell'abbattimento di Villa Venturini di Daneri.
E tuttavia, si dirà, quel che è fatto, è fatto. Il grave è che l'operazione di pulizia etnica nei confronti del Novecento non è ancora terminata. Lo scorso anno è stata infatti abbattuta tra l'indifferenza generale e anzi, a ricordare certi proclami pubblicati sui giornali, con un certo compiacimento per la prontezza dell'intervento di bonifica, il padiglione realizzato nel 1963 dall' architetto milanese Angelo Mangiarotti per il piazzale della Fiera di Genova. La struttura, importantissima testimonianza della lucida progettualità dell'architetto e della sua capacità di sperimentazione sui materiali, non presentava problemi conservativi tali da richiederne l'abbattimento, ma tant'è una decisione di così inaudita gravità è stata presa nel corso di un'opera di «restyling» (adesso si chiama così) del quartiere fieristico.
Più o meno nello stesso periodo non sotto la Madonnina, ma più vicino a noi, a La Spezia, la ricerca di Mangiarotti nel campo del design veniva celebrata all' interno di una mostra commemorativa del Premio del Golfo. Mentre l'ultimo numero di «Abitare» che dedica la sua copertina a Mangiarotti, sbatte in prima pagina la denuncia dell'abbattimento, pubblicando anche i bellissimi schizzi originali del progetto.
E questo non è certo un buon biglietto da visita per una città che si candida ad essere capitale europea della cultura. Cultura che deve intendersi, lo si è detto, come giusta consacrazione del passato, ma anche come capacità di cogliere le novità del presente. Perciò, anche se i genovesi fossero propensi a portare automaticamente la mano alla rivoltella al solo sentire nominare la parola arte contemporanea (per parafrasare un sinistro personaggio che in quest' epoca di deregulation revisionistica potrebbe trovare riabilitazione - uno dei protagonisti del nazismo, Joseph Goebbels, ndr), sarebbe comunque un dovere improrogabile da parte dell'amministrazione quello di fare proposte ragionevoli per fermare quella mano.
Non entro ora nel merito della proposta della richiesta di una performance della Beecroft, mi limito solo a ricordare che la mostra della Pepper alla Fiera (dove si annida forse un maligno genius loci) costò molti più soldi di quelli richiesti adesso dalla pimpante artista anglo-genovese.
Tra tutti gli interventi apparsi negli ultimi giorni, mi è sembrata infine ampiamente condivisibile la proposta di Anna Costantini di contarsi e di vedere chi è disponibile in città a contribuire a mettere in campo la propria esperienza. Considerata la struttura del sistema dell'arte, tra critici, galleristi, collezionisti e, naturalmente, artisti, sarebbero molte le categorie ad essere coinvolte in questa conta. E anche se sono perfettamente consapevole che un incontro del genere potrebbe suscitare una straziante atmosfera da Grande Freddo, non provarci sarebbe davvero un peccato.


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ARTE CONTEMPORANEA: SERVE UNO SPAZIO VERO
Piero Millefiore (La Repubblica, 21 febbraio 2001)

Come era prevedibile la polemica su Villa Croce e sulla mostra in corso nel museo si è dissolta nel nulla: ancora una volta si è dimostrato che soltanto un evento o una polemica contingente crea interesse intorno a una realtà che a Genova non sembra ancora trovare una ragione sufficiente per una quotidiana esistenza.
Innanzi tutto una confessione: non ho visto la mostra «1950-2000. Arte genovese e ligure...» per pigrizia, per noia, per disappunto... Condivido tuttavia con coloro che mi hanno preceduto alcune affermazioni: è giusto affermare che le scelte operate in una mostra sono l'espressione del curatore e sua la responsabilità di difenderle.
Non credo però che un museo possa pensare di costruire la propria collezione principalmente sulle donazioni, perché credo nella dignità e professionalità del mestiere di artista e credo che riconoscimenti e legittimazioni avvengano anche e soprattutto con l'acquisto delle opere, acquisto che può essere anche solo quasi simbolico, purché vi sia un progetto.
Talvolta invece essere invitati a una qualsivoglia mostra viene ritenuta già una gratificazione sufficiente (e questa logica dopolavoristica accompagna spesso la politica espositiva sia delle gallerie pubbliche che private come anche di alcuni artisti).
Il museo d'arte contemporanea genovese ha budget ridicoli... mi pare però di ricordare che l'assessorato dal quale il museo dipende ha speso recentemente circa un miliardo per finanziare una mostra di una artista non certo di primo piano nel panorama internazionale dell'arte e che comunque aveva appena esposto a sole due ore di treno da Genova.
In quell' occasione noi artisti fummo un po' apatici: non ci rendemmo conto della gravità della cosa e non la criticammo come avrebbe meritato. Fare sentire la propria voce quando si oltrepassa un limite di decenza credo sia invece essenziale e doveroso per chi opera nel contemporaneo.
In una città dove si nega l'importanza degli spazi di lavoro e di scambio per gli artisti che qui operano (così come accade normalmente in quasi tutte le maggiori città europee), una città che ospita casualmente e misteriosamente un atelier per artisti finanziato dalla città di Zurigo (ma che non ne ha di analoghi in nessun'altra città d' Europa), che pensa di costruire il proprio futuro sul passato (ancorché importante) anziché sul presente, che vede un'Accademia di Belle Arti arroccata su posizioni di 'splendido' ma un po' snobistico isolamento, altre probabilmente sono le priorità.
È certamente prioritario un 'vero' Museo d'Arte Contemporanea con opere di respiro internazionale, non però negli spazi inadeguati di Villa Croce, ma in una struttura realizzata appositamente per tale scopo, con un budget tale da consentirgli una reale autonomia finanziaria che non faccia dipendere il museo esclusivamente dai capricci di funzionari-burocrati...
E poiché il panorama dell'arte contemporanea è complesso e sfaccettato mi aspetterei anche che, in tale museo, i curatori delle rassegne organizzate fossero sempre differenti in maniera da costruire nel tempo un patrimonio artistico il più aderente possibile alle molteplicità della realtà contemporanea.

 

 

2001