materiali sulle arti a genova, 1960-2018





IMMAGINE PER LA CITTÀ - 2

di Francesco Vincitorio

 

A prima vista, una mostra non facile. Le opere sono, in genere, molto interessanti, ma il percorso è piuttosto complicato e, per di più, c’è quel titolo «Immagine per la città» (un po’ ermetico, come oggi quasi tutti i titoli) ad intrigare non poco il visitatore.
Poi, pian piano, forse proprio per quella particolare attenzione e relazione a cui l’autentica opera d’arte riesce a dar vita, la trama si disvela, affiora il filo conduttore del discorso.
E ripercorrendo le bianche sale dell’Accademia viene chiaramente in luce quella «presa di coscienza» del problema della città, da parte degli artisti, di cui parla Gianfranco Bruno, animatore e principale responsabile della mostra.
E si comprende come questo «problema urbano» nasca solo a partire da un certo momento, come rileva Franco Sborgi (altro responsabile) per giustificarne i limiti cronologici.
E, infine, come sia esatta la diagnosi di Vittorio Fagone - sempre nell’introduzione al catalogo - che questo mutato rapporto con la città sia strettamente legato all’avvento della macchina.
Da una esposizione di splendide opere che, da principio, poteva far pensare alla solita, occasionale «antologica» - o, tutt’al più, ad una proposta «per una galleria d’arte contemporanea», mancante anche a Genova - vien fuori, cioè, tutta una serie di relazioni che si organizzano intorno al tema cruciale «arte e città».
E dicendo cruciale non ci si riferisce soltanto ai dipinti e alle sculture e a quella sala in cui Arno Hammacher mi pare riesca a toccare la coscienza di ognuno, con una icastica sequenza di foto che documentano il dramma del decadimento urbano; oppure a quel settore più propriamente architettonico-urbanistico, ospitato a Palazzo Reale insieme ad altre opere che non hanno trovato posto all’Accademia, settore riservato ad una svariata e problematizzata serie di progetti per una città effettivamente moderna.
Quanto a quella realtà che è poi il tema-base paradigmico, verso cui gli organizzatori intendevano indirizzare l’attenzione del visitatore e, cioè, il centro storico di Genova e il suo futuro.
Una dura, cruda realtà alla portata degli occhi di tutti e che, implicitamente, quasi specularmente, rimandava a quel cielo tempestoso su Ostenda di Ensor, che apre la mostra, e a tutti gli altri ambienti urbani con i quali gli artisti, da tempo, hanno fatto i conti: dalla «Strada di S. Francisco» di Tobey alle macchine minacciose e sopraffattrici di Kupka o di Grossberg.
E, via via, l’individuo e la folla di queste disumanizzate città (per esempio, il tragico «Viandante di Sironi» o il «Ritorno dei lavoratori» di Munch) e poi la violenza, documentata con opere altrettanto eccezionali, quali quelle di Shahn, di Kokoschka, di Warhol e di numerosi altri artisti italiani e stranieri, anche giovani.
Per ultimo, l’utopia, progetto ideale - da Mondrian ai costruttivisti russi, da Albers a Klee - in uno srotolarsi d’immagini che, lentamente, dialetticamente, riescono a suscitare questa consapevolezza di una città e di una vita che potrebbero essere diverse e, per molteplici ragioni, olle sfuggenti e senza volto di Genovés, ai lirici progetti suprematisti di Malevic o agli spazi armoniosi di Nicholson. ai sogni di De Chirico, alla Nuova Oggettività tedesca, a Vedova, alla struggente solitudine de «L’uomo inginocchiato sull’erba» di Bacon.
E ci si sente presi da una profonda amarezza, da quel «vago senso di sofferenza e d’ansietà di cui parla Sbarbaro, opportunamente citato in catalogo, insieme ad altri poeti, scontratisi anch’essi con la città. E vien voglia di dire, con Brecht, che «Le relazioni fra gli uomini per questo non migliorano. – L’epoca dello sfruttamento non è per questo più vicina alla fine».
Muove da qui la volontà di agire, di cambiare le cose. La volontà di discutere, in concreto, questo problema, ripeto, cruciale per il futuro degli uomini.
Sorvolando su quanto d’imperfetto può esserci in questa mostra. Su quanto di irrisolto c’è nei suoi stessi modi espositivi. Accettando, cioè, questi limiti, come limiti umani e di quella obiettiva condizione generale su cui, appunto, la mostra vuole richiamare l’attenzione. Avviando così un discorso critico che è augurabile sia intenso, aperto, spregiudicato.
E di cui dobbiamo essere grati all’Ente Manifestazioni Genovesi che ha organizzato questa iniziativa e a coloro che materialmente, fra comprensibili difficoltà, l’hanno realizzata. Una mostra che, soprattutto,speriamo non rimanga un fatto isolato, ma consenta a questa città d’inserirsi, in modo sistematico e con tutto il peso della sua storia, in un discorso culturale ogni giorno più improcrastinabile.

(da NAC Notiziario Arte Contemporanea, nuova serie, n. 5, maggio 1972, pag. 13)

 

 

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