materiali sulle arti a genova, 1960-2018





Workshop di Allan Kaprow a Villa Croce: Push and pull



1998: JUST DOING / SOLTANTO FARE - WORKSHOP DI ALLAN KAPROW A VILLA CROCE
di Leo Lecci



 

Dal 12 al 16 ottobre 1998 Allan Kaprow (Atlantic City 1927), il grande artista di origine russa, naturalizzato americano, internazionalmente noto per aver creato, alla fine degli anni Cinquanta, la forma espressiva dell’Happening, ha tenuto a Genova, presso il Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce, un workshop intitolato Just Doing / Soltanto fare, organizzato dallo stesso muse3o con la collaborazione di Caterina Gualco, presso la cui galleria, alla fine del laboratorio, si è tenuta una mostra che, oltre a documentare le diverse fasi dell’attività dell’artista statunitense, ha presentato anche alcuni documenti fotografici del workshop appena conclusosi. La scuola di specializzazione in Storia dell’Arte dell’Università di Genova ha accettato l’invito della direzione del museo a partecipare al workshop, cogliendo l’occasione per offrire ai suoi studenti una importante esperienza didattica concreta.
Per gli allievi “contemporaneisti” della Scuola dell’Ateneo genovese che, come il sottoscritto, poterono parteciparvi, insieme ad alcuni artisti e critici genovesi, l’evento ha assunto i caratteri dell’eccezionalità: ci veniva offerta l’occasione di ascoltare e discutere con una delle massime autorità in materia i presupposti teorici dell’Happening, una delle tendenze più innovative, complesse e, proprio per questo, interessanti dell’arte dell’ultimo dopoguerra; al tempo stesso di diventava diretti protagonisti di un importante evento artistico. Durante il workshop, infatti, le azioni che Kaprow ci invitava a compiere erano introdotte e seguite da suoi interventi che stimolavano vivaci scambi di idee da cui era possibile trarre vere e proprie lezioni sull’arte degli ultimi cinquant’anni. Del resto Kaprow ha sempre unito all’attività creativa il mestiere di professore di storia dell’arte.
L’artista ci ha raccontato del suo giovanile interesse per la filosofia e del fascino su di lui esercitato dal libro di John Dewey Arte come esperienza, in cui l’autore evidenziava lo stretto legame esistente tra l’arte e le esperienze che si succedono nella vita quotidiana di ogni essere umano. Ci ha parlato del suo breve periodo “pittorico”, dagli esordi come studente presso Hans Hofmann alla presa di distanza nei confronti degli Action Painters poiché essi finalizzavano l’azione alla realizzazione di un’immagine pittorica, mentre egli cercava una separazione netta tra azione e pittura, tanto da suscitare l’ilarità di Harold Rosenberg che sosteneva non essere arte il suo lavoro. Ci ha illustrato le sue prime composizioni realizzate assemblando casualmente materiali diversi che col tempo si erano trasformate in allestimenti ambientali, environments. Ha ripercorso con noi gli incontri che più hanno segnato la sua vita d’artista, da quello con Meyer Schapiro a quello, fondamentale con John Cage di cui condivise l’idea di “un’arte che non sia differente dalla vita ma un’azione nella vita”, idea che si sarebbe rivelata fondamentale per la nascita e lo sviluppo dell’Happening, termine che proprio Kaprow ha usato per primo nella sua performance del 1959 18 Happenings in 6 parts alla Reuben Gallery di New York.
Come ha giustamente sottolineato Lara Vinca Masini “Kaprow spinge al massimo il tentativo di identificazione fra arte e vita, cui avevano dato avvio il movimento futurista il movimento dada, e che la poetica dell’oggetto del New Dada aveva intensificato, traducendo, per così dire, lo ‘spettacolo’ dell’arte in spettacolo della vita”.
Nel suo fondamentale testo pubblicato nel 1966, Assemblages, Environments, Happenings, Kaprow ha definito gli happenings “assemblage di eventi che si svolgono in più di una situazione spaziale e temporale e un lavoro artistico ambientale attivato dal performer e dal pubblico”. L’evento newyorkese del 1959, infatti, si era configurato come un’articolata serie di azioni di performers effettuate all’interno di tre ambienti caratterizzati dalla presenza di luci, specchi, pareti dipinte, suoni: gli spettatori erano sollecitati a intervenire seguendo precise istruzioni. Anche se le azioni erano basate su un programma definito, i risultati si erano rivelati imprevedibili: L’Happening, quindi, come ha affermato lo stesso Kaprow, era “qualcosa di spontaneo, qualcosa che avviene”.
Proprio da questo assunto ha preso avvio il nostro workshop, dal titolo, già di per sé significativo, Just doing, che, nel suo svolgersi, è stato però arricchito anche da spunti e idee tratti dalle successive esperienze dell’artista, con implicazioni diverse dal classico Happening.

Come lo stesso Kaprow ha avuto modo di spiegare al critico genovese Sandro Ricaldone che l’ha intervistato durante il suo soggiorno nel capoluogo ligure:
“I primi happenings, tanto miei come di altri artisti come Robert Rauschenberg, Claes Oldenburg, Jim Dine, erano eventi complessi che si svolgevano in sedi non convenzionali e implicavano la partecipazione di molte persone. Poi, attorno alla metà degli anni ’60 sono arrivato ad una chiarificazione concettuale. Osservavo il gioco dei bambini, in cui l’imitazione ha una funzione di esplorazione dei comportamenti. Ho iniziato a lavorare su azioni semplici, cose che non hanno senso al di là della loro immediatezza (…). Nei miei laboratori propongo soprattutto esercizi che stimolano un’attività elementare, non-finalizzata. Come stringersi la mano, spegnere un fiammifero con un soffio, osservare una nuvola. Gli artisti di oggi, i postmoderni, sono convinti che la storia sia finita, che l’arte sia finita, ridotta a clichés che si possono soltanto rimescolare, combinandoli in un modo o nell’altro. Invece la vita è ricchissima. Fluida, imprevedibile proprio negli eventi più semplici. Non serve l’arte, basta l’attenzione”.

Questo, dunque, il significato di Just doing / Soltanto fare, non una performance ma “una forma d’arte indipendente”, il giocare per giocare, senza vincitori né vinti.
Ecco alcune delle semplici azioni che, con risultati assolutamente imprevedibili, siamo stati invitati a compiere:
Leaving your mark on the world: I partecipanti si dividono a coppie, uno traccia per terra un segno continuo con un gessetto mentre l’altro immediatamente lo cancella.
Push and pull: i partecipanti si dividono in piccoli gruppi, in ciascuno dei quali uno deve abbandonare completamente il proprio corpo alla volontà degli altri che lo devono spostare e posizionare a proprio piacimento.
Copy cats: i partecipanti, forniti di un piccolo specchio, si dispongono a coppie rivolgendosi le spalle e cercano di catturare con lo specchio l’immagine riflessa dell’altro.
Change your jackets!: uno scambio di giacche tra i partecipanti.
Throw away kisses: ogni partecipante scrive la parola bacio su alcuni pezzetti di carta che appallottola e getta per terra; quindi li fa muovere soffiando.
Infine Kaprow ha chiesto ad ognuno dei presenti di proporre egli stesso un’azione ludica da svolgere tutti insieme. Tra queste “guardare” per un minuto lo scorrere del tempo sul quadrante dell’orologio oppure ripetere uno alla volta il proprio nome al contrario.

Giunto alla conclusione, il laboratorio è stato presentato al pubblico presso la sala conferenze del museo di Villa Croce. Anche in quella occasione Kaprow è riuscito a coinvolgere direttamente gli spettatori in un’azione, facendo girare fra essi un pollo arrosto che qualcuno ha anche “inaspettatamente” addentato.
Ancora una volta un semplice gesto, un atto spontaneo, aveva annullato la separazione tra arte e vita.

 

 

dal Quaderno della Scuola di specializzazione in Storia dell'Arte dell'Università di Genova, 1998-2003,
Stampa Microart's, Recco 2004