materiali sulle arti a genova, 1960-2018



Gordon Matta Clark, a w-hole house, installazione, Galleriaforma, Genova, novembre 1973,



1973: GORDON MATTA CLARK ALLA GALLERIAFORMA
di Germano Beringheli


Il modo di esprimersi di Matta-Clark è forse più complicato e faticoso di quanto a tutta prima si possa immaginare. Se il padre suo, il più noto pittore surrealista cileno Sebastian Echaurren Matta, subì in America l’influenza di Marcel Duchamp – continuando nella ricerca di uno spazio che gli permettesse di estendere all’infinito il campo del visibile e della coscienza – egli dimostra di avere una illimitata fiducia nella capacità di invenzione maturando, nel proprio operare, una vocazione singolare. Che sta, sostanzialmente, tra una architettura destrutturante – ma non negata – e il rovesciamento di una precisa volontà costruttiva.
In sostanza Gordon Matta-Clark interviene nella comunicazione con una concreta azione di architettura opposta alla “regola” sistematica del fare: il disfare o, meglio, il mutare disfacendo come indicazione di potenzialità creativa, uno scatto utopistico ma non velleitario. Egli dimostra chiaramente di non aver fiducia nella sintatticità della “forma” quando questa è vincolata da una funzione espressiva unica e definitiva per cui, con un comportamento razionalmente ineccepibile, reagisce strappando ad architetture esistenti intere e parziali parti.
È lui stesso che definisce il suo tipo di azione come necessaria: “Lavorare con edifici senza costruire all’interno della struttura fra i muri, ‘decapitare’ tetti, incidere ed estrarre infrastrutture, enfatizzare le strutture interne attraverso la estrazione, rimuovere speciali punti di tensione, aprire spazi e redistribuire una massa, l’ambiguità dello spazio di fronte all’oggetto, lavorare in assenza, l’intera casa lavora a ricevere una intrusione.” Ne risulta automaticamente una sorta di operazione effettiva e simbolizzante, una avventura intellettuale di sicura potenzialità se si considera che Matta-Clark non rimane alla volontà prefigurante del progetto passando, quando gli se ne dà l’occasione, alla azione vera e propria. Avuto mani libere da un industriale genovese, egli è “intervenuto” nella palazzina degli uffici di questi sperimentando, di fatto, la sottigliezza delle supposizioni passando direttamente al “disfare” per “modificare” e trasferendo reperti e testimonianze dell’intervento alla Galleriaforma.
Qui, con l’aiuto di fotografie che documentano la verifica, si assiste al senso della cosa, alla occasione che permette lo scambio delle parti strutturali interne di uno spazio attraverso il gioco di aperture che, in definitiva, sono mutue proiezioni compensatorie sia nel senso architetturale vero e proprio sia nella misura psicologica. E questa si fa veramente “sottile”, una sorta di libido che non è radicalmente distruttiva e che si ripromette di ridimensionare il gioco formale. Non a caso l’atteggiamento definitivo viene poi sintetizzato in quello che può anche essere definito un “recupero di memoria”, quando il nostro avverte il bisogno di ristrutturare in pianta, come un vero e proprio architetto tradizionale, e la proiezione del mutamento da apportare allo spazio è la proiezione del gesto del “taglio” destrutturante. Si tratta, e penso che valga la pena di sottolinearlo, di una esperienza intellettuale ed artistica piuttosto singolare, volta forse a concentrare l’attenzione su certe antitesi del costruire in un momento in cui gli idoli del neo-capitalismo si ripropongono nella fenomenologia dell’habitat contemporaneamente all’abbandono di Utopia anche da parte di molti dei suoi più accesi contestatori.

 

 

Germano Beringheli, Gli interventi di Matta-Clark, "Il Lavoro", 11 dicembre 1973