materiali sulle arti a genova, 1960-2018





1975: IL MUSEO ATTIVO DI ANTROPOLOGIA DI MONTEGHIRFO
di Aurelio Caminati e Claudio Costa


L’UOMO E L’OGGETTO COME FENOMENO SOLIDALE NELLA STRUTTURA MOBILE DEL MUSEO ANTROPOLOGICO DI MONTEGHIRFO

Un’indagine conoscitiva intorno ad un oggetto presuppone, in ogni caso, una distinzione di fondo attinente all’uso ed alla forma. Entrambe queste categorie (uso e forma) riconducono all’origine dell’oggetto; questa, a sua volta, ne indica il rapporto con l’uomo: quanto più l’uso e la forma suggeriscono la mano che ha costruito e che lo adopera, tanto più l’oggetto di caratterizza come “oggetto dell’uomo”. Si stabilisce così una reciprocità di indicazioni, idonea a formulare ipotesi di comportamento e pertanto di conformazione possibile degli oggetti d’uso: il modo di essere dell’uomo potrà sottolineare l’idea e il significato dei suoi “oggetti” così come la forma e la fruibilità degli stessi può distinguere l’uomo, la sua famiglia, il suo comportamento, il suo habitat. Si giustifica pertanto – attraverso una ricerca reale, a lato di un’ipotesi logica e secondo una metodologia di procedere che consenta ampio margine all’immaginazione – un’indagine sull’oggetto, su un insieme di oggetti e sulle relazioni che attraverso di essi si costituiscono. Questa progressione dall’oggetto singolo all’oggetto in rapporto con altri o con altre realtà, contiene, come modulo determinato e costante, la “funzione” (anche come rapporto idea-oggetto).

L’ambiente a Monteghirfo proposto come “Museo” è, ora e originariamente, aperto e attivo, disponibile per accogliere, in progressione, al tri oggetti determinati da altre idee funzione. L’operazione di museificare una casa contadina si differenzia, per lo scopo e per i risultati, da altri apparentemente simili (raccolte private, conservazioni “ab integro”, case di artisti: famosi ecc.). Essa infatti non considera l’oggetto importante, emblematico o commemorativo, con il quale il visitatore ha un rapporto esterno e definito: qui l’idea originaria è, invece, l’identificazione di cose semplici, quasi sempre da lavoro, in rapporto strutturale e necessario con l’uomo e con lo spazio che fu abitato dall’uomo.
Su tale presupposto si chiarisce l’idea di utilizzare uno spazio che si manifesti eloquente per la coscienza, la conoscenza, la consapevolezza della vita e che sia supporto ideale per una verifica sulla memoria delle cose. Apparentemente passive, le “cose” divengono attive perché è la loro capacità della “natura” a renderne possibile la riassunzione a “corpus” completo con l’ambiente che le circonda.
Gli oggetti sono stati “fissati” (e descritti in lingua originale con una targhetta scritta a mano) nella loro totale realtà: come la pellicola sensibile alla luce può fissare tutte le immagini che le vengono proposte, così essi contengono un suono remoto che fu l’origine della loro creazione, conservano completo il significato e l’uso, come la tangibilità intatta di quando furono costruiti, e mantengono inalterato il rapporto fra essi e con l’uomo.

In arte, l’oggetto distinto e identificato è stato, finno ad ora, isolato, codificato, riproposto e trasportato via via in differenti accezioni. Duchamp, in particolare, ha “… messo in evidenza il fatto che un oggetto diviene oggetto d’arte perché è visto in un contesto artistico, e perché è stato scelto da un artista …” (C. Millet: “l’Art Conceptuel”, Paris 1972). In tal modo l’oggetto ha perso la sua funzione e il rapporto originario con l’uomo ne è stato alterato. L’oggetto “artistico” diviene di tutt’altra natura, assume un altro livello, è fruito in modo completamente diverso. Conservando invece l’oggetto a quello che esso è, nell’ambiente che lo ha contenuto, se ne acquisisce, oltre che il significato della forma e della funzione, il senso del rapporto originario con l’uomo, anche se mutata l’“occasione”, muta la fruibilità diretta che resta di pertinenza a chi erano destinati tali oggetti.
La ricezione di questo rapporto originario è tanto più immediata quanto più l’oggetto ha conservato la il proprio statuto antropologico: l’impronta antica del gesto di fabbricazione. Allora esso è capace di suggerire la passata movenza naturale per la quale è nato e della quale tuttora vive, evocando la fonte primaria di energia da cui è scaturito e per la quale agisce nella coscienza di chi lo può osservare.
Oggi la mano dell’uomo è stata sempre più sostituita da forme di controllo a distanza e da prassi anonime di automazione. La mano è divenuta morsa meccanica. L’estetica degli oggetti ha smarrito il senso del contatto, è divenuta più fluida e esterna, limitando in un unico scivolare di linee la sua tenue funzione asettica, nel nome di una ipotetica perfettibilità funzionale-estetica.
Attraverso questo diverso modo di operare, si è agito umilmente sull’oggetto che è stato ritrovato (non trovato); lo si è pulito, ricomponendolo in sé e nello spazio che gli era destinato; lo si è toccato, riconoscendolo sino in fondo, aiutati da che ne conosceva tutti i segreti; lo si è catalogato pazientemente secondo la natura e il linguaggio originario, nella speranza di restituirlo a quella cultura delle risorse con la quale è possibile identificarlo.

L’idea che ha sostenuto il realizzarsi del “Museo attivo di Antropologia” di Monteghirfo sta nella convinzione che l’oggetto per essere riconosciuto e mostrato, deve essere inamovibile dalla sua funzionalità e significanza e quindi dal suo spazio di appartenenza.
Il Museo tradizionale sottrae gli oggetti alla loro realtà: questo nuovo spazio, fruibile solo con uno spostamento dalla città, questo “Museo” vuole restituirli al loro vero ed all’uomo vero; è “Museo mobile” perché l’indicazione, la catalogazione, le transenne, le vetrine, le luci i cartelli esplicativi, tutti ciò che appartiene alla mobilità della struttura museografica è stato spostato verso l’oggetto, che, rimasto immobile nel suo contesto, si lascia avvicinare e comprendere.
Esso ora contiene di nuovo una cultura, una vita, la traccia duna emozione affogata nel tempo appena trapassato, e ritorna ad essere segno, una riflessione, un’analisi dell’idea prima, che fu in origine del suo artigiano.
Quindi “Museo” non più produttore di arte carismatica, ma Luogo dove si fabbrica la struttura stessa di uno strumento aperto alla verifica degli accadimenti, siano essi storicizzati (e pertanto continuamente da ristoricizzare), o appartengano all’immediata cronaca.
Museo” inteso come prolungamento della casa e dell’attività manuale, dove non si tratta di raccogliere oggetti per archiviare vestigia disseccate come negli erbari, e non si descrivono e si analizzano le forme nella loro esteticità, ma Luogo dove si fissano dati referenziali ed esistenziali di una situazione umana.
Museo” non più come struttura architettonica socio-culturale, nata a priori per conservare documenti in gran parte distaccati dagli uomini che li hanno prodotti ma struttura immaginativa (astratta, ideale, concentrata, immediata, attiva) che manifesti oggetti rivalutabili, da un lato come messaggi culturali, e dall’altro come forme sociali.

Da questi presupposti si ricaverà l’implicazione culturale dell’“indigeno”, che non si sentirà più oggetto di studio e di curiosità da parte dell’élite culturale (o pseudo tale), ma potrà acquisire coscienza profonda del su essere vero esempio di comportamento e fonte di un insegnamento conseguente. Se ne potrebbe anche ricavare la “messa in questione” della sistematica dell’Antropologia tradizionale, portata ad uno studio attento solo dei luoghi, degli usi e delle popolazioni ritenute culturalmente ricche. Ciò nella convinzione che ogni “gesto” e ogni “oggetto”, fabbricato a mano dall’uomo, ha un significato vero, che trova la sua ritualizzazione quando viene riproposto per il suo uso e ritrova la sua funzione.

Una cucina antica e intatta, col focolaio sulla pietra del pavimento e il soffitto a griglia di legno per seccare le castagne, diviene spazio possibile, l’unico possibile, per esporre gli oggetti di cucina di Maria, per capire sino in fondo la narrazione che essi fanno, nella loro lingua muta, di un’esperienza comune, vissuta da intere generazioni di uomini legati alla terra ed alla natura, ma liberi dalle necessità di una civiltà che sta operando coi suoi stessi mezzi la sua completa obliterazione.

Il “Museo di Monteghirfo” è stato attuato nell’intento di ristabilire il preciso rapporto che un oggetto fabbricato a man o ha con l’uomo, e per riproporre quel minimo spazio originario che una cultura periferica ha usato per la sua sopravvivenza e che, se ritrovato, restituisce alla conoscenza, alle emozioni, alla fantasia, la sua intatta carica di autenticità.

 

 

Da: MONTEGHIRFO - MUSEO DI ANTROPOLOGIA (Sezione ARTE MODERNA), ciclostilato, settembre 1975