IL DEPOSITO E I SUOI MULTIPLI
di Sandro Ricaldone
È tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento, in una fase in cui il sistema produttivo industriale aveva raggiunto
piena maturazione e il progresso tecnologico appariva travolgente, che la “riproducibilità tecnica” dell’opera d’arte - precocemente analizzata, vent’anni prima, da Walter Benjamin - passava dal cielo della
riflessione estetica al dominio terreno della sperimentazione pratica.
“Nella città del futuro – scriveva nel 1955 Victor Vasarely - la funzione poetica evolverà verso forme industrialmente moltiplicabili, dunque generosamente diffondibili. L’opzione fondamentale in favore di
un’integrazione dell’opera alla comunità giustifica automaticamente l’adozione delle tecniche di diffusione,
opzione fondamentale che implica un dono. Ma la diffusione è anche necessità e legge interna
della nuova estetica, l’etica della creazione artistica, a partire da ciò, non può essere concepita senza”.
All’afflato utopico di queste affermazioni, permeato dalla concezione di un’arte sociale, “per” e “nella”
comunità, “tesoro comune”, si legava la proposta, avanzata in quello stesso anno da Jean Tinguely e Yaacov
Agam di produrre edizioni di oggetti d’arte tendenzialmente illimitate, da realizzare con procedimenti
industriali e diffondere a prezzi contenuti. Questa idea troverà sbocco in una mostra allestita nel
1962 dalla Galerie Denise René a Parigi. Frattanto, nel 1959, Daniel Spoerri (legato a Tinguely da uno
stretto rapporto d’amicizia e collaborazione) aveva dato vita alla Edition MAT, anch’essa volta alla produzione di opere d’arte moltiplicate, un progetto che vide la partecipazione di Agam, Albers, Pol Bury,
Marcel Duchamp, Heinz Mack, Dieter Roth, Jesus Rafaél Soto, Tinguely e Vasarely. Anche in Italia
questa idea venne ad affacciarsi in quel torno di tempo attraverso autori come Bruno Munari (la cui
“Scultura da viaggio” del 1958 fu distribuita come omaggio della Valigeria Valaguzza), Enzo Mari e il
Gruppo T, attorno alla Galleria Danese di Milano. Ma, senza dubbio, l’esperienza più articolata e complessa
in quest’ambito fu quella condotta dalla Galleria del Deposito, che fra il 1963 ed il 1968 produsse
17 “multipli” di Morandini, Carmi, Scheggi, Alviani, Del Pezzo, Max Bill, Vasarely, Baj, Vices Vinci,
Soto, Castellani, Gianni Colombo, Gerstner, Mari, Simonetti, Luzzati.
La stessa nascita della galleria aveva la sua ragione essenziale nel “costituire un punto d’incontro tra
artisti e pubblico” non solo attraverso le mostre “ma anche rendendo possibile ad un più vasto numero
di persone l’acquisto a prezzo accessibile di opere di artisti contemporanei”, in particolare di grafiche e
di “oggetti realizzati in piccola serie con l’impiego di nuove tecniche e nuovi materiali”. E “l’aver concepito
sin dall’inizio come funzione preminente la diffusione dell’opera d’arte (…) con la produzione
di oggetti moltiplicati”, “senza cedimenti «industriali»”, conseguendo perciò in materia un effettivo “diritto
di precedenza”, un autentico primato nel nostro paese, sarà il tratto orgogliosamente rivendicato
nell’ultimo bollettino della galleria, pubblicato appena un mese prima dell’esplosione del maggio ’68,
come distintivo della sua attività. “Condensati delle caratteristiche stilistiche e tecniche di ogni singolo
artista” (Dorfles), i multipli del Deposito hanno fatto epoca per la spiccata qualità inventiva e l’intima
adesione alle svolte artistiche del loro tempo: alle tendenze ottico-cinetiche in special modo, ma non
solo a queste. Così ai cilindri rotanti della “Strutturazione acentrica” di Gianni Colombo si sono accompagnati su altro versante le sgargianti cravatte in PVC di Enrico Baj; il cubo in plexiglas di Vasarely
istoriato di vuoti e pieni, in un gioco di sovrapposizioni e trasparenze ha trovato un giocoso contrappunto
nel “Clap clap” di cerchi bianchi, rossi e neri, di Eugenio Carmi; l’illusorio “Cilindro virtuale” di Getulio
Alviani è stato messo a confronto con il puzzle di forme metafisiche di Lucio Del Pezzo, ironicamente
battezzato “La pazienza”.
Oggi, con l’avvento delle tecnologie digitali e della Net-Art, la moltiplicazione dell’opera d’arte coltivata
dai membri del Gruppo Cooperativo di Boccadasse va dilagando – secondo François Robic – in una
incontenibile proliferazione. Ma a Carmi e compagni rimane il merito incontestabile di aver dato sostanza
ai “sogni del loro secolo” e di aver provato, una volta di più, secondo l’osservazione di Marshall
McLuhan, “la capacità dell’artista di schivare l’urto violentissimo della tecnologia di qualsiasi epoca e
di parare questa violenza (e anzi, diremmo noi, a volgerla in positivo) con la propria consapevolezza”.
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