materiali sulle arti a genova, 1960-2018





Allestimento della mostra di Robert Morris alla Galleriaforma



PAOLO MINETTI: UN ALTRO DOMANI
di Pier Paolo Rinaldi


Se volessimo dare una definizione sintetica della figura di Paolo Minetti, scomparso all’età di novant’anni, potremmo usarne una che ha avuto fortuna negli anni Settanta del secolo scorso, quella di “operatore culturale”, e a buon diritto. E per aiutarci a capire lo spirito che dava forma a questo operare, l’entusiasmo post-bellico che noi delle generazioni seguenti non abbiamo conosciuto se non di riflesso, poche parole possono essere efficaci quanto quelle di Eugenio Battisti, storico dell’arte e fondatore a Genova del Museo sperimentale d’arte contemporanea nei primi anni anni Sessanta:
Oggi può sembrare assurdo essersi impegnati in un programma che si sapeva che quasi certamente sarebbe stato interrotto dopo pochi mesi, ma ci eravamo abituati durante la guerra a sopravvivere ad una apocalissi non futura, ma presente e continuativa, trovando ciò nonostante l’energia di ribellarci e di pensare ad un altro domani.
La Genova che si risveglia dopo il conflitto è stata trasformata dai bombardamenti in ciò che fu definita “la Stalingrado dei teatri”, ma l’arte scenica di quegli anni trova sbocchi impensati nelle sale dei musei, nei circoli aziendali e in un fondo Enal in piazza Tommaseo che ospita gli spettacoli del Piccolo Teatro “Eleonora Duse”, nucleo di ciò che diventerà il Teatro Stabile. Paolo Minetti partecipa alle prime messe in scena come attore accanto a Elsa Albani, Ferruccio De Ceresa e Alberto Lupo col quale, raccontava, spesso tornava a casa a piedi nella città buia alla fine delle prove. La nascita della Borsa di Arlecchino lo vede già nel ruolo che nel decennio seguente prenderà il nome di “operatore culturale” per proporre al pubblico, insieme con il regista Aldo Trionfo, nuovi autori e testi rivoluzionari. “In questa ripresa del gusto dello spettacolo a Genova si è inserito anche un gruppo di giovani”, scrive il critico Roberto De Monticelli sulla stampa nazionale:
Sono scesi nella saletta sotterranea di un caffè di via XX Settembre; vi hanno installato un palcoscenico microscopico, non più di una pedana, e recitano atti unici davanti a un pubblico seduto ai tavolini, con davanti la consumazione, come nei vecchi caffè-concerto. È una iniziativa, questa della Borsa di Arlecchino, che avrebbe dovuto sorgere prima a Milano, dove forse poteva essere accolta da un ambiente e da un giro d’interessi più vasto, che a Genova.
Gli spettacoli vedranno il successo di un attore come Paolo Poli e di uno scenografo come Emanuele Luzzati, che ricorderà nel 1991:
Su quel nostro piccolo palcoscenico sono passati Bindi e De André, Paolo Poli e Carmelo Bene. E nel pubblico sparuto poteva capitare un Michelangelo Antonioni o un giovane Franco Quadri critico aspirante.
Livia Cavaglieri e Donatella Orecchia, nel saggio del 2018 dedicato alla Borsa, mettono in luce il suo ruolo:
Minetti è un paziente e intelligente cacciatore di testi, attento a novità, recensioni, segnalazioni, pronto a buttarsi a capofitto nella lettura dei copioni e nella discussione sulle traduzioni, con proprie passioni – rimane per esempio folgorato da Max Frisch e poi ancora, quando rimane alla Borsa senza Trionfo, da Harold Pinter e Edward Albee.
Così come il teatro, anche l’arte comincia a ricavarsi degli spazi in una città a poco a poco sempre meno distratta. Un fondo di piazza San Matteo, un ammezzato del Palazzetto Rosso in via Garibaldi, uno chalet nei giardini dell’Acquasola, e infine un ex deposito di carbone davanti alla spiaggia di Boccadasse. Qui un gruppo di amici inaugura nel 1963 uno spazio cooperativo di artisti, grafici, critici. Nel 1969, in un articolo per la rivista londinese Art International, Umberto Eco ne sottolinea gli aspetti d’avanguardia: il Deposito
produce serigrafie, stampe di vario genere, oggetti in metallo, o in serie, che si possono acquistare a prezzo ragionevole. Attraverso la Galleria del Deposito il pubblico può avere in casa opere di notevole valore estetico a un prezzo assai basso
e qui Paolo Minetti stringe amicizie che dureranno una vita con Eugenio Carmi, Carlo Fedeli, Germano Beringheli, Gillo Dorfles. Al Deposito muovono i primi passi artisti come Getulio Alviani, Paolo Scheggi, Marcello Morandini, espongono grandi nomi europei come Richard P. Lohse, Victor Vasarely, Max Bill, compaiono i primi lavori importanti di Michelangelo Pistoletto e Giulio Paolini, e Lucio Fontana allestisce il suo ultimo Ambiente spaziale, oggi al Musèe d’art contemporain di Lione.
L’esperienza alla Galleria del Deposito sarà utile a Paolo Minetti quando, con l’appoggio dei fratelli Rebora, imprenditori e collezionisti, e l’aiuto di Clotilde Fertini aprirà la Galleriaforma in Largo San Giuseppe, alle spalle del “salotto buono” di Galleria Mazzini: accanto alle opere in mostra, infatti, la galleria produrrà sempre, durante la sua attività, multipli d’artista per offrire al pubblico, per usare le parole di Eco, “opere di notevole valore estetico a un prezzo assai basso”, alla portata di un pubblico più ampio. Per fare qualche esempio, Giulio Paolini ha scelto di recente d’esporre il multiplo Idem IV – realizzato da Minetti e Rebora per la personale dell’artista alla Galleriaforma nel 1974 e oggi nella collezione del Kunstmuseum di Winterthur – nella sua retrospettiva alla Fondazione Carriero di Milano e il multiplo di Cesi Amoretti, I sentieri della memoria del 1981, è nella collezione del Getty Museum di Los Angeles. Sono molte le opere che Paolo Minetti ha esposto in galleria a finire nei musei in giro per il mondo: la scultura di Dennis Oppenheim An attempt to raise hell è al Louisiana Museum of Moden Art di Humlebaek, un grande lavoro di Jannis Kounellis è al Walker Art Center di Minneapolis e il Whitney Museum di New York ha esposto un nucleo dei lavori realizzati a Genova da Gordon Matta-Clark, per non dimenticare l’opera dello stesso artista al Camec di La Spezia.
La chiusura della galleria non ha segnato la fine del lavoro di “operatore culturale” di Paolo Minetti: negli anni seguenti, nel vuoto che nel giro di qualche tempo sarà riempito dalla stagione delle grandi mostre, propone già nel 1977 l’istituzione di uno spazio pubblico/privato per l’arte contemporanea sul modello dei Kunstverein tedeschi e nel suo osservatorio di “art director” del periodico Trend documenta la vita culturale genovese mettendo in luce, tra le altre cose, uno dei punti deboli della neonata Villa Croce per cui il museo soffre ancora mentre scriviamo. Scrive, con preveggenza, nel 1984:
La direzione d’un museo d’arte contemporanea non può essere un incarico a vita, chi lo dirige deve avere la massima libertà e autonomia ma per un tempo sempre determinato; solo così potrà garantire un continuo aggiornamento e una sempre maggiore aderenza alla realtà in movimento, al farsi e al divenire dell’arte.
La direzione della rivista Meta gli permette, negli anni, di documentare il farsi degli eventi artistici nazionali ma anche di dar spazio a figure attente della critica che ne analizzano gli aspetti d’interesse. Il suo ruolo di segretario del Centro Turati, l’istituto che Minetti definisce “un termometro delle idee diffuse”, gli consente invece di intervenire sul dibattito in corso invitando ai convegni figure come Gisèle Halimi, deputata francese poi ambasciatrice all’Unesco e l’economista americano John Naisbitt, affrontando temi che vanno dall’arte all’arredo urbano alla poesia contemporanea ma anche al futuro di nuovi, grandi “contenitori” nascenti come il Palazzo Ducale di Genova in corso di restauro, con l’aiuto di figure come Alanna Heiss, allora direttore del P.S.1 Contemporary Art Center di New York, e María de Corral della Fundación La Caixa di Barcellona.
L’interesse per l’operare nella cultura lo porta nel corso degli anni ad esaminarne il funzionamento attraverso i reportage delle grandi mostre come Documenta a Kassel e la Biennale di Venezia ma soprattutto con le interviste che realizza per Il Secolo XIX e Il Lavoro con figure come Leo Castelli, fondatore della Castelli Gallery di New York, Rudi Fuchs, curatore del Castello di Rivoli, William S. Lieberman, direttore del Metropolitan Museum of Art di New York, Viktor Misiano, curatore del Museo statale Puškin delle belle arti di Mosca, ma anche con direttori di case d’asta come Casimiro Porro di Finarte, di assessori alla cultura, di artisti come Jannis Kounellis e di critici come il francese Pierre Restany. Ed è proprio Restany che, incalzato da Minetti in cerca di “indicazioni progettuali”, mette in luce il conflitto che a Genova ha caratterizzato in campo culturale l’intera metà del secolo scorso tra le iniziative “che – dichiara – mi sono sempre sembrate quasi eroiche” e lo status quo:
Non so se la città sia pronta ad assumere una posizione più attiva, credo che Genova sia molto vicino a Milano da una parte e molto isolata dall’altra. Credo che ci sia ben poco da fare in una città che forse ha perso la volontà di fissare sul proprio territorio un certo flusso di idee e di uomini.

 

 

2019