ANNI 70: LA PERFORMANCE A GENOVA
di Sandro Ricaldone
Nel corso degli anni '70 si sviluppa a Genova un intenso confronto attorno al tema della corporeità e dell’azione. Alle sollecitazioni provenienti da una molteplicità di iniziative che si concentrano tra la primavera e l’autunno del 1974 corrisponde infatti l’entrata in scena di una nuova generazione di performers (Pretolani, Rossini, Tagliafico, Menoncin, Pasini, Micheletto, Bignone, Galletta) e l’avvio di nuovi fronti di attività da parte di artisti già noti come Dellepiane, Mesciulam e Caminati. Anche in questo caso è l’Unimedia a ricercare un quadro d’insieme, raccogliendo ne Il corpo come linguaggio, allestita a novembre in concomitanza con la presentazione del libro di Lea Vergine di cui riprende il titolo, opere di Vito Acconci, Günther Brus, Gilbert & George, Urs Lüthi, Hermann Nitsch, Luigi Ontani, Gina Pane, Michele Zaza. Poco prima Galleriaforma aveva ospitato Eleanor Antin con “La ballerina e il re” e lo stesso Acconci con una “performance narrativa” (1) in cui - mentre sue immagini venivano proiettate su pannelli e pareti - descriveva le azioni di persone incontrate o seguite per strada.
E in ottobre Allan Kaprow era stato invitato da Gianni Martini e Alberto Ronchetti a realizzare in sei appartamenti genovesi “Take-off” (2) , una activity nella quale semplici azioni pratiche come vestirsi o svestirsi, fare o disfare il letto, costituivano il pretesto per scelte comportamentali alternative (dire il vero o mentire a proposito dell’azione compiuta), in una catena di combinazioni e ripetizioni tesa a richiamare l’attenzione sulla fluidità della vita e sull’imprevedibilità che si annida negli eventi più elementari (3) .
In quello stesso arco di tempo Armando Battelli proponeva all’Arte verso i lavori fotografici con interventi gestuali di Arnulf Rainer (seguiti nel marzo 1975 da opere di Hermann Nitsch) mentre Samangallery faceva conoscere, attraverso registrazioni video, Simone Forti, Joan Jonas e Charlemagne Palestine.
Nel giugno 1975 è Laurie Anderson ad interpretare nelle vie di Genova “Duets on Ice”, una performance in cui utilizzava il self-playing violin con canzoni preregistrate in italiano e inglese (stile spaghetti-western) e parlava, indossando pattini confitti in blocchi di ghiaccio, delle analogie fra pattinare e suonare il violino (“lo stato costante di squilibrio, seguito da equilibrio, seguito da squilibrio, come camminare, come la musica, come ogni cosa”) finché il ghiaccio non si scioglieva, facendola cadere.
Ancora Samangallery presenta, l’anno successivo, in prima italiana, Rebecca Horn, mentre Unimedia (in collaborazione con Luciano Inga-Pin) dà vita alla rassegna “Domanda e risposta” (con la partecipazione, fra gli altri, di Luca Patella e Michel Journiac) e Arte verso espone lavori fotografici di Marina Abramovic, Natalia L.L. e Gina Pace.
Frattanto, sul versante genovese, Beppe Dellepiane avvia fra il 1973 ed il 1974 una importante sequenza di azioni nel cui ambito spiccano “Stilita” (1974), dove l’artista seminudo estrae da un marsupio-grembo una patata tagliata a pezzi e tenuta insieme da spilli da balia e ve la ripone, in una sorta di “mimesi di una generazione incompiuta” (4) , “Antemela” (Il Vicolo, 1976) che vede artista e pubblico impegnati a scagliare mele contro le pareti della galleria e “Medicamenta” (5) (Unimedia 1976) con la proiezione sull’artista di immagini di malattie e deformazioni.
A partire dal 1975 Aurelio Caminati intraprende un percorso di azioni che lo porta ad affrontare in rapida sequenza tematiche antropologiche (à coté dell’esperienza condotta con Claudio Costa al Museo di Monteghirfo) in “Controprocesso” (6), rilettura animata di riti di magia povera, e concettuali (“Beuys deconstruit” (7), Musée d’Ixelles, con Claudio Costa) per focalizzarsi poi sulle trascrizioni di opere pittoriche. Ne “I matti del Lissandrino” Caminati “assume il nodo iconografico dell’opera e lo restituisce, in un gioco di ambiguità e di spostamenti sempre più arrischiato, alla realtà. I matti con le tuniche e il copricapo bianchi, il carro, la salita delle Misericordia che conduce all’Appennino dove i matti saranno dispersi vengono recuperati: figure, luoghi, movimenti, itinerari riproposti” (8), secondo un procedimento ripreso e approfondito successivamente in una ventina di trascrizioni (dal Cerano, David, Tintoretto, Ingres …).
Legato – come nel caso di Caminati - alla precedente attività pittorica e, più specificamente, all’indagine (attraverso ingrandimenti e segmentazioni) del “segno precario” (9), l’approccio all’azione pubblica manifestato da Mesciulam all’inizio del 1976 (10) coniuga componenti ritualistiche (la processione) ad un’ostensività enunciata nella denominazione (Epifanie ostensibili) come eventuale, ma in realtà necessitata e aggressiva. L’esibizione trasfigura i lacerti effimeri di scritture, “montati vistosamente su una lunga asta di legno eretta e impugnata come un’arma”, come ha scritto Francesca Alinovi, in “totem arcaici”, “sintomi dell’inespresso e del tradito che si cela nella coscienza”.
Fra i giovani sono Angelo Pretolani e Roberto Rossini a mostrare la maggiore continuità. Pretolani si manifesta sotto la maschera dell’Angelo azzurro, istituendo un ironico gioco fra il proprio nome e uno stereotipo cinematografico, fra il proprio manifestarsi (“aptero”, ossia senza ali) e l’apparizione angelica, tra il rimando simbolico del colore alla sfera celeste e la sua connotazione di genere, in una serie di performances (fra cui Apparizione e tentativo di volo, Unimedia 1977) condotte fra spazi deputati e alternativi (i già rammentati Anagalleria Opera, Performing Art Center).
Rossini inclina invece agli esordi – come annota Viana Conti – “a presentare il suo corpo come identità spoglia, di trasparente primarietà” come in “Evento invisibile” (Teatro dell’Archivolto, 1978) “un lavoro sul buio e l’immagine, sul rapporto fra occhio e cuore” (11) per evolvere verso una dimensione più spersonalizzata, di gesti meccanici e sonorità iterate (“Down”, Unimedia 1979).
Immagine: Beppe Dellepiane, Stilita, 1974.
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