materiali sulle arti a genova, 1960-2018



Beppe Dellepiane, Ectolemma n. 11, tecnica mista, 1982



1982: BEPPE DELLEPIANE A PALAZZO BIANCO
di Attilio Sartori


 

NEL DISCO DELLA LENTE

Se la nostra vita è circondata dalla morte, così anche la sanità del nostro intelletto è circondata dalla follia.
Wittgenstein
«Osservazioni sui fondamenti della matematica»


Beppe Dellepiane è tra gli artisti contemporanei forse uno dei più vicini al senso del "sacro".
L’“horror” del sacro è quello che si avverte di fronte ai suoi oggetti. La "sacertà" è benda, è "infula", è “cecità dell'erma”, è “angelus for day” che si aderge su un “paese acatalessico”.
Il "fascino" del sacro emana da oggetti in cui si giustappongono metonimicamente simbologie oniriche. Fascino da "fascinum" = maleficio, malocchio, ma anche "incanto", sortilegio.
La realtà è per Dellepiane "involgimento", involucro che involge se stesso e crea corpo.
La "ricerca" (la "doreorg", che significa "esercizio", inteso come ricerca della perfezione) è come il calzino di cui parla Benjamin in "lnfanzia berlinese", dove il mistero, il "sacello" dove risiede il dio, è nell'intimo irraggiungibile dell'involgersi-svolgersi e perciò fondo senza fondo, come si legge alla pag. 90 dell'edizione einaudiana: «Il primo armadio, che si apriva quando volevo, era il comò. Non avevo che da tirare la maniglia e la porta, svincolata dal suo arresto, scattava verso di me. Vi era riposta la mia biancheria. Fra tutte le camicie, mutande, magliette che dovevano essere là dentro, e di cui nulla ricordo più, c'era però qualcosa che non si è perduto e che mi faceva sembrare ogni volta di nuovo affascinante e avventuroso l'accesso a questo armadio. Dovevo farmi strada fin nell'angolo più riposto; lì incontravo i miei calzini, che se ne stavano l'uno accanto all'altro, e, all'uso antico, erano arrotolati e rincalzati, sicché ogni paio aveva la sembianza di una piccola borsa. Nessun piacere più grande di quello di immergere la mia mano quanto più a fondo era possibile nel suo interno. E non solo per il tepore della lana. Era il "tesoro" che io sempre stringevo nella mano dentro quel viluppo, e che irresistibilmente mi attirava nel profondo. Quando lo avevo ben saldo nel pugno ed io ero certo del possesso della tenera massa lanosa, incominciava la seconda fase del gioco che portava alla stupefacente rivelazione. Poiché ora mi accingevo a estrarre il "tesoro" dal suo lanuginoso involucro. Lo tiravo sempre più verso di me, sino a che il prodigio era compiuto: liberato "il tesoro" dalla sua custodia, questa stessa non esisteva più. Non ero mai pago di ripetere la dimostrazione di questo inquietante teorema: che forma e contenuto, custodia e custodito, "il tesoro" e il suo scrigno erano una cosa sola - e precisamente una terza cosa: quella calza, in ambedue si erano trasformati».
Lo “sprofondamento” è, quindi, “scioglimento”.
L'investigazione nel cuore dell’“involto” termina nel momento in cui si scopre che questo cuore, questo “sacello” non esiste o esiste solamente come “percorso”, come atto di “scendere”, come “descensus ad lnferos”. E gli lnferi sono “scioglimento e liberazione”, scoperta dell'illusorio processo, o “progressus” al rovesciamento, alla risalita del diavoletto di Cartesio che riaffiora sempre, e scopre la continuità indissolubile tra superficie e profondità, fra interno e esterno, contenente e contenuto. ln questo "progressus" (da "progredi") che è "descensus" ma anche "ascensus", il moto, illusorio e insieme reale (bipolarità che si autodistrugge perché si scopre solo come "modello", anello di Moebius in cui già Lacan ha rappresentato l'inconscio), si definisce la sostanza dell'ascetismo, inteso nel suo senso letterale e "figurale": ricerca instancabile della verità, che in una coscienza moderna corrisponde alla altrettanto instancabile certezza che questo “secretum”, questa verità è essenza inattingibile, è solo "processo", è "filo di Arianna", è “textus”, e “trama”, è, in altre parole, solo "linguaggio", nella sua determinazione più oscura, sepolta, abissale. E si ripete solo perché è "memoria".
Ma come si configura tutto ciò in questo Dellepiane lettore di Gozzano? Certo, Dellepiane è lettore tendenzioso e ambiguo, come è proprio di un artista in cerca di segrete affinità, o di richiami ed echi e analogie concettuali in un testo “altro” - per epoca e per poetica – ma appunto per questo stimolante per “lumina”, e per “intermittenze”, e anche, perché no?, al di là del tessuto letterario e della romantica vicenda ironico-sentimentale di Gozzano, per il comune, dilagante (talora impietrito, talora tenero, talora "mitico") senso di morte. Tuttavia, al di là di ogni estrinseca "ispirazione" da "rilettura", il corpo poetico di Gozzano smotta sotto i colpi di Dellepiane, l'abbrivio che lo sfiora è lama che ne strappa lacerti, ne vuota i pieni. ne riempie i vuoti, lo spoglia, lo farcisce, e lo risarcisce in lavori, avventati o preziosi, di “recouture”.
Il corpo è "operato", ogni oggetto simbolico pare uscire dalle mani di un operatore chirurgico, che rovescia tessuti, applica protesi, ricuce e rifascia e inguaina ... e perché la lente?
«Nel disco della lente s'apre l'ignoto abisso, già sotto l'occhio fisso la pietra vive, sente ...» (da “Una risorta”). L'ascetismo scientifico di Totò Merumeni in consonanza irrazionalistica col positivismo dominante “fin de siècle”, s'impone come fuga dal mondo, dal gioco delle passioni private e pubbliche; solitudine del “ricercatore” che dilata colla lente del naturalista il microcosmo naturale. E il Gozzano poeta delle “Farfalle”, diventato entomologo per pseudoniccianesimo frustrato, da figlio di D'Annunzio deluso («Troppo m'illuse il sogno di Sperelli, troppo mi piacque nostra vita ambigua», da "Poesie sparse"). L’“ignoto abisso” di Dellepiane trova qui un punto di partenza (o di fratellanza culturale) per richiamarsi alla poetica, tutta sua, del "male" ("malefizio" o "malattia") che proietta (come fa anche Gozzano) su schermi radiografici fitti intrichi di alveoli polmonari, labirinti sussultanti di visceri (“e I'ossa e gli organi grami al modo che un lampo nel fosco disegna il profilo d'un bosco, coi minimi intrichi dei rami”, da “Alle soglie”) o amalgama con irriverenza sarcastica dentiere irridenti, arti artificiali, fasciature bianche d'apparenza posticcia, con le delizie funerarie dei relitti, dei cascami, delle cose dimenticate negli armadi di nonne contadine; trine o velluti di domestiche Felicite abbandonate, o aigrettes di dame dalle “sagaci labbra”: l'asprezza dei canini nel bacio famoso di "Una risorta", è già inteschiato, calcinato nel bianco funereo che fissa lo stravolgimento metamorfico delle forme («E una signora vestita di nulla e che non ha forma. Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma»). L'horror sacrale è quindi "horror vacui".
Come dicevo più sopra il fascino del fasciame che involge si fa corpo, e l'erma di Gozzano compendia in certo modo, quasi in un assemblaggio massiccio di organi, questo percorso di continuità fra esterno e interno altobasso, superficie e profondità. L'espressionismo marcato della fronte sfuggente disegna una forma dolicocefala accecata di bianco, e nella sua struttura a sarcoma sembra indicare la sacca che pende sul petto, terminale di una coloctomia o borsello che serba il talento per varcare l'Acheronte?
Tutto è pieno, e tutto è vuoto in questo bianco "infulare" che aduna aggruma (non delimita e circoscrive), talora inscatola, come un reperto luttuoso (o un feto in bottiglia) la sinuosità elegiaca del morire giovani. Così “Ectolemma”, aggregato verbale (una delle tante etichette con cui B.D. sigla le sue opere), con palese analogia con “ectoplasma” (e il “fuori” e il “dentro” si richiamano anche qui), segna la morte della sposa: «Quiete è d'intorno: sopra il lin vermiglio tutto il sangue che un baglior rischiara la sposa muore, bianca come un giglio» (da "La Falce").
Ricordare Gozzano come sublime poeta funebre o, in conclusione, fissare invece sul luttuoso gozzaniano le note distintive di un'operazione antropologica e artistica più complessa e moderna? Direi che questa è l'ipotesi che deve guidarci in questa lettura di Dellepiane. E il risvolto benjaminiano che, forse involontariamente, si enuncia in modo quasi allucinante nella figura dell'angelo, dell’“Angelus for day”, che leva un'ala monca verso l'abisso del cielo, e si torce come risucchiato dal vento del futuro trascinando oscillanti gambe impedite di bambola.

 

 

(dal Catalogo della mostra "Beppe Dellepiane. A Guido Gozzano", Palazzo Bianco, Genova 17-30 aprile 1982)