materiali sulle arti a genova, 1960-2018





1980: SCRITTURA VISUALE A GENOVA
di Luciana Muller Profumo







(manifesto di A.G. Fronzoni)



La tendenza attuale verso una "scrittura visuale" implica un atteggiamento analitico sullo specifico della scrittura in connessione con il linguaggio verbale verso la ricerca di una nuova, totale poeticità che scaturisce non soltanto, tradizionalmente, dal lirismo del contenuto o dalla polisemia del linguaggio, ma dalla "visualità" del testo. La ricerca è data come "modello" per un agire poetico onde recuperare l'essere primo, mitico, della scrittura come segno che nasce dalle cose e dalla realtà del pensiero.
Come si sarà notato, si parla di scrittura "visuale" e non "visiva" (termine che, legato alla denominazione di "poesia" sarà usato per denotare convenzionalmente una precisa tendenza, di tipo "tecnologico"): nella scelta della parola "visuale" si vuole indicare per la scrittura la possibilità di una espansione dei significati a livello ideico e mentale: ci si tende a spostare oltre la zona immediatamente retinico-visivo-estetica verso aree in cui la visualità si sviluppa in senso, nella correlazione analitico-associativa dei vari elementi della scrittura: grafia, spaziatura, segni grafici, verbali o addirittura estranei alla comunicazione grafica, ma intesi come segni linguistici.
Nella scrittura visuale poeticità e artisticità vengono a coincidere non in senso "aggiuntivo", ma come totale "poiesis", invenzione: non si tratta soltanto di un evento linguistico o artistico, ma di un sintomo della tendenza attuale all'unita di tutte le esperienze "liberatorie", in cui si supera la natura di arte come "rappresentazione", nello stesso tempo non si nega il linguaggio che viene riagganciato al gesto: gesto non come intrusione o compromissione con l'organico e il manuale, ma come progetto di pensiero o pensiero diretto.
Siamo agli anni 1950: a quella data precoce OM Martino Oberto, a Genova, appare già orientato verso una tendenza analitica sul problema della scrittura. Del 1947 è il progetto della rivista Neosofia panestetica, pubblicato nel numero 124 di Phantomas (Bruxelles) dedicata appunto a OM (Martino Oberto). Attraverso la simbiosi tra linguaggio pittorico e poetico in una sorta di interlingua che estenda la comunicazione a zone sconosciute e non coperte dai codici separati della pittura e della poesia, si punta al ribaltamento del modo tradizionale di impostare il rapporto tra uomo/sapere/esistere, che per Oberto si fonde con l'essere. La necessità di una simbiosi tra linguaggio poetico e pittorico è parallela alla esigenza di uscire dalle strettoie del linguaggio codificato; partendo dalla semantica generale di Korzybsky e dalla filosofia analitica oxoniense, ma fondando la critica a questi indirizzi sull'operazionismo ceccatiano, Oberto tenta di rompere il circolo vizioso di una analisi che tende a indicare gli equivoci del linguaggio codificato usando lo stesso linguaggio che viene messo in crisi: per Oberto occorre uscire dal linguaggio per criticare il linguaggio.
La sua posizione, come è già stato osservato, è sintetizzata nell'aforisma di Wittgenstein, che con Ezra Pound è il punto di partenza, in positivo, di Oberto: "gettare la scala dopo esservi saliti".
ln altre parole Oberto vede il linguaggio e la scrittura come strutture necessarie, su cui occorre agire, indipendentemente dal rapporto con la realtà sensibile e con le codificazioni convenzionali, per ritrovare la possibilità di una comunicazione diretta di quella che Oberto chiamerà l’“esserialità", ossia la fusione di essere ed esistere nella astrazione del pensiero.
In Graphos, del 1953, esposto alla mostra del Mac di Milano, la scrittura è colta al momento del suo apparire come registrazione ideografica dell'attività poetico-mentale: i materiali (carta, pennini, inchiostri) portano a un ambito decisamente "scrittorio", la superficie non è trasformata in fondo pittorico ma lasciata come piano di stesura degli ideogrammi che si intersecano si sovrappongono, creando uno spessore (semantico) proprio, una scrittura plastica, tridimensionale.
Del 1955 è "anaestesia", la "tabula rasa" bianca (il colore bianco disteso a cancellare i segni sulla tela bianca) che è un inizio e non una conclusione come il bianco su bianco, l'assoluto, di Malevitch.
Ha inizio di qui l'operazione Ana. Ana è per Martino Oberto una sorta di jolly linguistico, indica insieme "contro" e "movimento dal basso verso l'alto e in senso contrario". Ana diventa il simbolo di un atteggiamento sintetizzato nell'anafilosofia, dove si allude al rifiuto del sapere ufficiale, standardizzato (parallelo all'idea di Off Kulchur), del pensiero logico, nella scelta del non sapere da cui scaturisce una filo/sofia in cui, secondo il primitivo significato della parola, si manifesta l'amore: amore al sapere e all'essere/esistere. È questa la condizione base del recupero "poietico" del linguaggio e della scrittura.
Si potrebbe parlare per Oberto di eros in senso neoplatonico, pichiano, eros globalizzato che si manifesta nel linguaggio, "desiderio di sapere" inteso come disponibilità cognitivo-esseriale; è questo l'innesto a una scrittura che al di fuori dell'automatismo surrealista porta a visualizzare più che il pensiero, l'impulso a pensare, identificando pensare e agire, momento teorico e momento operativo nell'analisi grafica del linguaggio. L'impulso/energia nasce all'inizio, nel 1955, dal rapporto con un testo poetico, il e. e. cummings 277 (, e nel I959 in 42o parallelo: queste bufere sono state argomento d'inesauribile interesse, da Dos Passos, o come in "Ora la nuvola è grande come la tua mano" da un testo di Emerson: sono scritture ideografiche (OM le definisce anagrafie) di impulsi pensierali.
Più tardi l'accumulo pensierale si incanala, per una sorta di distacco o di sospensione, senza suggerimenti estranei, in una scrittura a stampa o a mano, dove l'analisi del linguaggio è condotta fuori dal linguaggio, modificato anche nella sintassi per una struttura ad accumulazione continua. È la fase dell'off language: il linguaggio fuori dai limiti, nella frangia dell'impensabile e dell'incomunicabile, pensiero del possibile: si notano segni non verbali, scritture immaginarie, sconosciuti alfabeti: il flusso del pensiero si concretizza prevalentemente in orizzontale, come se l'orizzontalità in senso occidentale, da sinistra a destra, fosse la forma strutturale di un pensiero più dominato e incanalato quindi nella sequenzialità lineare. E di questo momento (1963-1972) il Journal anaphilosophicus, una sorta di "mental-narrative-art", in cui la sovrapposizione di segni e immagini crea a volte, come in Graphos, uno spessore proprio alla pagina.
La linea di Oberto si chiarisce in quelle che Spatola chiama "esche definitorie": attraverso l'operazione chirurgica sul corpo della parola dicotomizzala dalla sbarra o dall'apostrofo (filo/sofia, r'evolution, s'oggetto, est/etica, v'ideo, come in Museoomparole, del 1975) emerge quello che per Oberto è il significato primo, riposto o sottaciuto della parola: compaiono nella scrittura a stampa agglomerazioni di lettere foneticamente impossibili, altrove l'importanza sta nel gesto che mima il o accondiscende al segno linguistico, in una alternanza di impulsi "caldi" e "freddi". Nella scrittura di Oberto, che egli chiama "scrittura significantiva" (fondendo le parole significante e significativa) la fase di determinazione del significato è elusa: si tratta di uno scarto, di uno scavalcamento del significato per giungere direttamente al "senso": un salto che metaforicamente Oberto, come superamento del materiale e del sensibile, di ciò che è ufficiale e codificato, aveva concretizzato già nel 1966 nel frammento filmico (una vera e propria "performance") "Bottezzo ergo soom" (soom come fusione di "sum" e "om") in cui l'osservatore dopo dieci minuti di allucinante immobilità vede Oberto compiere quel salto in cui si condensa il senso dell'operazione Ana nell'affermazione del primato dell'astrazione mentale come pensiero del possibile.
Così Oberto può affermare il valore di filosofia come arte, filosofia poetica, e poiché la scrittura è forma-portante-pensiero, l'identità di arte e scrittura, l’“arte/scritta".
Il suo pensiero/atteggiamento è nuovamente sintetizzato nella forma che riassume rosone e mandala nella sintesi tra cultura occidentale e orientale: il rosone come forma emblematica della "summa" conoscitiva del medioevo, il mandala come simbolo della fondamentale unità dell'universo (Opus ana, 1976). Il riferimento al pensiero orientale come negazione dell'esistere casuale nella sua dimensione di "tragico quotidiano" e raggiungimento dell'essere come amore, come coincidenza degli opposti (maschile/femminile, io/tu) è il punto d'arrivo che apre verso una prospettiva di "an/archia culturale" (1979): una palingenesi estetica della società attuata attraverso il ribaltamento del linguaggio e della scrittura come arte ("poiesis") totale.
Anna Oberto, partecipe dell'operazione Ana fin dall'inizio, passa dall'analisi interlinguistica svolta graficamente tra testi figurativi e letterari (Jouffroy/Scanavino, 1 963; Duprey/Piene, 1965) all'analisi delle radici mitico-magiche del Iinguaggio (Languatic formulae, 1967): un'operazione "hors langage" che verrà assimilata al suo orientarsi verso le tematiche del femminismo. Del 1969 è il montaggio dell'ltaliana'69, ironica puntualizzazione del tema della donna-oggetto.
La strutturazione del messaggio e i materiali usati derivano dai repertori e dai magazzini della comunicazione di massa: secondo una prassi condizionata dalla necessità di comprensibilità immediata sul piano sociale, del messaggio stesso, Ma il gioco di rifrazioni e di rimandi funziona in senso ossessivamente ironico.
Anna Oberto ha identificato la nuova poeticità del linguaggio realizzata attraverso il recupero dei significanti (la scrittura) con la prospettiva di una nuova civiltà in cui ciò che è l'essenza femminile, condensata nel suo organico, si potrebbe dire panteistico, della vita, abbia parte integrante sul piano culturale per una non impossibile utopia: di qui la metafora della Città ideale (la tavola di Piero della Francesca, di Urbino) come Anautopia (Anautopia della città ideale, 1973), e inoltre la scrittura a mano (A misura di donna, 1976, per la mostra La scrittura) vista come segno di essere "al femminile" (è questo il leit-motiv della mostra al Mercato del sale, del 1975, Scrittura al femminile), anche di quella parte femminile, ma annullata e repressa, che è in ogni uomo.
C’è nell'affermazione del primato della "scrittura a mano" il riferimento storico alla scrittura privata della donna, dal diario alla lettera d'amore (Scritture d'amore, 1979), dove l'interiorità è garanzia di verità direttamente trasfusa nel segno. La struttura diaristica ritorna, unita alla grafia amanuense, nelle opere nate nella simbiosi operativa con il bambino: se per OM si poteva parlare di mental-narrative-art, qui appare una love-narrative-art (Diario v'ideosenti/mentale). L'identificazione di vita e linguaggio, di esperienza e segno (grafico e verbale) viene notata affiorare nell’ “agire" del bambino: attraverso il richiamo ai radicali, a scritture inventate, quasi scritture magiche, già inserite nei manifesti femministi anaculturali (1969 è 1971), si tenta poeticamente di risalire alla nascita del linguaggio, al recupero della "parola perduta" in cui il balbettio del bambino, come diretto riscontro all'esperienza del mondo, è simultaneo all'apparire della prima traccia grafica: entrano in campo, oltre ai segni grafici a pastello, foto polaroid e oggetti, come il sasso sul quale compare, come segno "trovato" la spirale, mitico simbolo del divenire cosmico, (serie L'utopico, del 1974). Recentemente il tema è stato sviluppato in Scrittura elementare, 1979.
L'operazione Ana non è esclusiva personale di Martino Oberto, ma operazione di gruppo che in Ana etcetera, rivista di filosofia astratta e linguaggio, ha avuto il luogo di scambio e di incontro a livello internazionale, in anticipo anche rispetto all'operazione di Art & language (1969). Ana etcetera è stata pubblicata in undici numeri, dal numero zero del 1958 al numero 10 del 1971: l'analisi grafica del linguaggio è il motivo base dell'attività del gruppo per una circolazione tra operatori metaculturali al di fuori dei circuiti del mercato: il piano metalinguistico si definisce nella denominazione di "metacomunicazione quasi pubblica-quasi privata". Scrivono su Ana etcetera oltre a Martino e Anna Oberto, Corrado D'Ottavi, Giampaolo Barosso, e Ugo Carrega, che diviene redattore dal 1963; Ezra Pound, Vincent Miller, Enrico Ribulsi, Attila Faj, Alain Jouffroy, lsidore lsou, Théodore Koenig. Sul piano teorico collabora Felice Accame, ligure, e inoltre altri di aree extra-liguri, quali Luciano Caruso, Carlo Piola Caselli. Ana etcetera con i suoi modelli operativi (Off kulchur, derivato da Ezra Pound, Off language, Decultura) ha esercitato, come nota V. Accame ne Il segno poetico (1977) una forte pressione sui modelli culturali, proponendo una posizione antisettaria e antiprovinciale anche al di là delle neo-avanguardie letterarie.
Ancora una volta si viene a sfatare l'ipoteca di provincialismo che la storiografia ha sempre attribuito all'ambiente culturale e artistico genovese. Del gruppo di Ana etcetera, come già si è accennato, ha fatto parte fin dal 1960 D'Ottavi, che in Ana etcetera numero 3 compone quella che può essere considerata come una delle prime poesie visive, poesia da "vedere" e non solo da leggere, in cui i segni verbali sono integrati a segni visivo-materici (in questo caso "papier collé"). Tuttavia se per "poesia visiva", convenzionalmente, si intende la corrente degli anni '60, poi denominata "poesia tecnologica", è da osservare che D'Ottavi se ne differenzia per l'esclusione dell'immagine iconica tratta dal repertorio di massa che nella poesia tecnologica sarà supporto essenziale al messaggio. D'Ottavi risvolta in senso pragmatico l'atteggiamento analitico della linea di Ana etcetera: tende deliberatamente a ricavare un senso poetico dall'uso di materiali della comunicazione di massa o dal repertorio usuale di segni grafici, come nell'inserto contenuto in Ana etcetera numero 6, del 1965 ("Sem-poetics, Ecco il problema"). Le sue realizzazioni risentono forse di una ascendenza vagamente dada e futurista, soprattutto nell'interazione tra spaziatura, lettering, uso di segni grafici: ma al di fuori dell'eversione dichiarata, la sua ironia è trattenuta e sottile, legata a un'estrema economia di mezzi, senza indulgere a un "bricolage" troppo variato e seducente. Queste caratteristiche sono riscontrabili in Fantapolitica, del 1967, in cui adottando il medium del fumetto, ironizza sull'assurdo e il contraddittorio che si insinua nelle strutture ideologiche codificate, nel vivere passivo e acquiescente dell'uomo come a proporre la necessità di una continua verifica.
Utilizzando esclusivamente ritagli di scritte tratte da giornali e incollate su fogli liberi riprodotti come volantini politici (circa nel 1970) propone il modello per una poesia di massa, realizzabile anche da chi non è ufficialmente poeta. Ne La condizione umana, presentato alla mostra Phantomas di Bruxelles del 1975, il collage è sviluppato a dimensioni monumentali: D'Ottavi ripropone qui l'immagine emblematica del dolore riportata alla dimensione dell'uomo contemporaneo, attraverso l'inserimento di scritte e immagini che parlano insieme di una concreta carnalità, di alienazione e di un ideale voler essere. Per questo risvolto semantico D'Ottavi si distacca dall'autoriflessione analitica della linea di Oberto, ma nello stesso tempo, pur nell'identità dell'impegno socializzante, anche dalla tendenza a deistituzionalizzare il linguaggio di massa, tipica della linea tecnologica.
Nel 1965 Ugo Carrega con Rodolfo Vitone e Lino Matti pubblica i quaderni Tool, programmati in sei numeri ciclostilati dedicato ognuno ad un elemento della composizione grafo-pittorica della pagina. Dei sei numeri di Tool realizzati tra il 1965 e il 1967, i primi cinque sono pubblicati a Genova, affiancati a Ana etcetera, l'ultimo realizzato a Milano, dove Carrega dà vita al Centro Tool e, in seguito, dal 1974, al Mercato del sale, centro internazionale di ricerca verbovisuale.
Il punto di partenza di Ugo Carrega e del gruppo che pubblica su Tool (la parola significa "strumento") (tra i liguri Vincenzo Accame e Liliana Landi, poi emigrati a Milano, Rolando Mignani, oltre naturalmente a Carrega, Matti, Vitone, ma compaiono anche Anna e Martino Oberto) è un atteggiamento analitico maturato in seno al gruppo Ana: l'affermazione di principio è che "uno strumento modifica chi lo usa" e che "occorre parlare dello strumento che si usa", affermazioni che riportano a un ambito decisamente pragmatico-analitico: lo strumento è la pagina in tutta la sua realtà dimensionale e materica.
La pagina non è spazio amorfo, ma campo di forze, di vettori semantici; vengono inseriti segni non verbali, tracciati (video-semantici), segni iconici, in condizioni di assoluta pariteticità e interazione con i segni verbali. Nasce così la "scrittura simbiotica" in cui il messaggio si configura nello spazio tra sinotticità e visualità guidata, nella globale funzione significante di supporto e segni.
La poesia visiva genovese nell'accezione "tecnologica" è legata al lavoro svolto nell'ambito del Gruppo studio di cui, dal 1958, fecero parte tra gli altri Luigi Tola, Guido Ziveri, Olga Casa, Rodolfo Vitone, e dal 1966 Miles.
Dal clima culturale del Gruppo studio doveva nascere da un lato, ideato da Rodolfo Vitone che ne fu per qualche tempo l'editore, nel 1963, Il Marcatrè, diretto da Eugenio Battisti, e dall'altro, nel 1963, fondato da Olga Casa e da Guido Ziveri con la partecipazione di Luigi Tola e Miles, il club d'arte La Carabaga, a Sampierdarena, presto nota a livello internazionale: vi si organizzò nel 1965, a una data abbastanza precoce anche in relazione all'area europea, una mostra internazionale di poesia visiva.
Frattanto parte degli operatori genovesi comparivano sulla prima antologia di poesia visiva stampata dall'editore Sampietro nel 1965, mentre il Gruppo studio pubblicava il Tre rosso rivista uscita in soli tre numeri di cui il primo, numero zero, senz'anno, va datato probabilmente al 1965, mentre il secondo, numero uno, è del 1966. ln questo numero sono pubblicati i documenti della tavola rotonda sulla poesia visiva svoltasi in concomitanza della mostra.
Rodolfo Vitone già con le Anacenòsi del 1963, rivela una marcata tendenza analitica, rifuggente dalla carica ironica del Gruppo studio: con elementi segnici minimali (uso stretto del bianco e del nero, carta, inchiostro grasso) sperimenta la possibilità di oggettualizzare in senso positivo (quasi a riscoprirne una "esteticità") i tracciati della civiltà tecnologica. Le successive esperienze tematicamente impostate sulla verifica del rapporto uomo-tecnologia (1 970-71), rapporto continuamente oscillante tra disperazione e speranza, risentiranno in parte delle esperienze della "scrittura simbiotica".
Sulle tele emulsionate campeggiano lettere isolate (come parti di parola, quasi in un "lettrisme" finalizzato) insieme con invadenti immagini (tratte da fotografie pubblicitarie, industriali, letraset) di parti di macchina o di ingranaggi, mentre ammassi confusi di lettere si accumulano ai margini, fuori dello spazio e sagome umane vengono inserite nel paesaggio tecnologico-verbale. Decisamente sembra prevalere una visione pessimistica della condizione umana: Ia struttura e sineddoche delle immagini in simboli con il fondo a colorazione svariante, quasi a suggerire la luminosità opalescente dello schermo televisivo, determina il carattere meta-linguistico della comunicazione: le forme iconiche sono immagini parziali di immagini, le lettere sono immagine parziale allusiva al linguaggio. E forse questo allontanarsi dal mondo della realtà per una mediazione "tecnologica" del messaggio a concretizzare quest’ultimo in senso drammatico e ossessivo.
Una speranza sembra tornare nelle "vetrine" (1971): qui la lettera-iniziale sembra nascere dagli oggetti inseriti, ma con la fatalità di un aggancio immotivato, come nei sillabari, dove l'oggetto, con le sue connotazioni simboliche sembra sfuggire, privilegiando il momento dell'esperienza iconico-oggettuale a quella comunicativo-verbale. Per cui Vitone sembra ripiegare sull'accettazione del linguaggio come struttura "data" e non "inventata" all'interno delle cose. Questo spiega la rivisitazione in chiave simbolica delle forme della comunicazione di massa nelle opere più recenti (Questa sera, 1977).
Miles con Federico degli spiriti, del 1965, rivela la sua aderenza alla poesia tecnologica: qui è esaltato il mito interplanetario attraverso l'immagine del cavaliere antico: questo punto di partenza si risvolterà dalla fiducia al dubbio e dal dubbio all'ironia nella tematica dell'ideodotto o condotto di idee, in allusione alle strutture delle catene produttive. Dalla contestualità di slogans immagini si passa ad assemblages di oggetti linguisticizzati su supporti diversi, cui si uniscono scritte con lo stesso valore degli oggetti: questi sono insieme cose e idee: cose-idee e idee-cose sono un flusso continuo cui l'uomo è sottoposto, flusso frastornante, ma insieme fragile (vedi il pannello Fragile del 1970), ultima possibilità di risvoltare in senso umano le cose: da questa strettoia si tenta assurdamente di evadere; utopisticamente (1973) Miles propone in Sinergia una fiduciosa petizione a una dimensione cosmica e vitalistica del pensiero, pur vincolato alla struttura dell'ideodotto, che qui compare in sezione. La simbiosi di oggetti e parole solo apparentemente può far pensare al new-dada: le scelte non sono infatti inconsce o casuali, ma orientate a estrarre dagli oggetti, come dalle parole, un "senso" legato o ribaltato rispetto all'uso comune. Miles oscilla tra una iperconvenzionalizzazione e un dissestamento semantico del segno. ln una fase recente abbandona il supporto bidimensionale per una comunicazione decisamente oggettuale e tridimensionale: anche qui l'oggetto diviene parola per l'accumulazione semantica che trascina con sé (il cavalletto, la macchina fotografica, lo specchio, il secchio, lo slogan...) (1978). Più che assemblages di oggetti si potrebbe dunque parlare di assemblages di codici: per poter comunicare sfuggendo l'inevitabile usura dei linguaggi "puri" (a meno di non scegliere una "linea analitica") attraverso la possibilità combinatoria dei segni simbolizzati: siano essi parole o cose.
Ancora da stabilire la ragione del silenzio da parte della critica d'arte sul fenomeno della scrittura visuale: soltanto dal 1972 (Renato Barilli cura con Daniela Palazzoli una sezione della Biennale di Venezia su Il libro come luogo di ricerca) si nota da parte dei critici d'arte l'inizio di un interesse: oltre a Renato Barilli (che sviluppa in Parlare e scrivere, del 1977, edizione La nuova foglio, il saggio contenuto nel catalogo pubblicato in occasione di una settimana di animazione culturale presso la galleria La Tartaruga di Roma, nel 1975, e della mostra La nuova scrittura, galleria 2000 di Bologna), Filiberto Menna presenta, nel 1976, la mostra itinerante La scrittura. Se la ricerca visuale era uscita dalle aree rarefatte della critica specialistica, prevalentemente condotta dagli operatori stessi, e delle gallerie d'avanguardia, ciò era avvenuto soprattutto per un'attenzione che proveniva dal versante della letteratura o degli stessi che partecipavano alla ricerca: preceduti dal testo di Adriano Spatola, del 1969, (Verso una poesia totale, riedito nel 1978 Paravia, Torino), vengono pubblicati, nel 1976, il testo di Luigi Ballerini (La piramide capovolta, Marsilio, Padova), nel 1977 quello già citato di Vincenzo Accame (Il segno poetico, Munt press), che proponevano una storicizzazione in relazione alle avanguardie storiche, rispondendo in certo modo al clima di nascente interesse manifestato anche dalle grandi mostre ltalian visual poetry 1912-1972, Finch museum di New York, Scrittura visuale in Italia 1912-1972, Galleria civica d'arte moderna di Torino nel 1973 e La forma della scrittura, Galleria civica d'arte moderna di Bologna nel 1977.
Si tratta di portare al limite la ricerca di una "poiesis" come "fare" poetico, come invenzione e azione sul mondo, da un lato; ma dall'altro si fa luce la coscienza dell'inadeguatezza del Iinguaggio codificato nei confronti dell'esperienza vitale, la necessita di dilatare i codici oltre la parola, oltre il numero chiuso, insensibile, ma quantificabile, "di ciò che ha un nome", di ciò di cui si può parlare. Avviene così che la scrittura visuale si orienti verso una interdisciplinarietà di metodi e di strutture in vista di una nuova poeticità, al limite, oltre lo spazio della pagina.



dal catalogo della mostra Scrittura Visuale a Genova a cura di Anna Oberto
Genova, Teatro del Falcone
22 gennaio - 10 febbraio 1980