materiali sulle arti a genova, 1960-2018





SEZIONE RITMICA
di Carlo Romano, Michele Mannucci, Guido Giubbini

 

Chi parla e cosa: ciò che è evidente nel chiacchiericcio delle teorie estetiche di oggi è l'acquisizione della nozione economicistica di 'crisi' con la conseguenza di adeguare maggiormente i tempi lunghi dello stile di vita narcisistico consentito agli artisti ai ritmi stagionali della moda. Ciò che era usuale nei 'do it yourself' degli anni settanta - che sulla scorta della frugalità fricchettona proponevano il riutilizzo dei materiali di scarto onde progettare la nuova abitabilità del mondo in penuria energetica (post·petrolifero) - si ripresenta come un incessante remake dell'ideologico la cui rapidità di consumo fa sì che non ci si avveda di quali metastasi è portatore.
Il rispettato 'passaggio fra gli stili' ne è la teoria più ingenua, l'anticomunismo la più tenace.
Il paesaggio urbano degli ultimi anni ha sollecitato da una parte gli architetti a riproporsi urgentemente come artefici di una attualizzazione della sua decorazione e dall'altra parecchi artisti a confondersi, senza tuttavia dileguarsi, in alcune delle espressioni più vigorose e corali fra quante ve ne germinano (concerti, sport, negozi, silos).
Si è trattato di una tendenza sufficientemente diffusa tanto da essere riconoscibile, eppure frammentata, ricca di accenti individuali, sregolata, che si crea nella sua stessa dimensione collettiva, che si sviluppa nella sollecitazione dei luoghi di raduno. Vi si sono comunque verificate delle formazioni che hanno spinto ad una aggregazione meno provvisoria.
È il caso, a Genova, del Centro Uh! che ha precisato la sua fisionomia attraverso una frequentazione, non priva di incisività, d'una sala musicale cittadina, lo Psyco Club.
Entro questa cornice e attraverso l'uso d'un bollettino quale strumento per cosi dire giuridico avvalorante il nucleo operativo, il Centro Uh! si è mosso soprattutto nel territorio di ciò che ancora non molto tempo fa si cercava di definire come intersecazione dei media. Lo scenario contemporaneo rivela quanto la definizione sia riduttiva o, almeno, quanto poco pertinente ad una situazione più stratificata, compatibile quindi ad una preistoria del genere ove l'artista non dava ancora del tutto acquisito al corpo sociale l'uso di certi strumenti e gli sembrava più assillante il discorso teorico sulle loro capacità.
Il Centro Uh!, va detto per rispetto alla cronologia, è stato un punto d'arrivo dell'attività di Angelo Pretolani, una delle giovani presenze del panorama artistico genovese degli anni settanta.
Egli conobbe Roberto Rossini durante una serata dedicata da una galleria oggi scomparsa, guarda caso, a una conversazione di Carlo Romano intorno a Fluxus, il gruppo che a buona ragione va messo all'origine di quelle attitudini artistiche sulle quali ci stiamo intrattenendo.
Rossini aveva una buona esperienza di grafico ed una diretta conoscenza dei fermenti cittadini sottoposti alle rotazioni delle mode. Con lui, con Adriano Rimassa, un filmmaker di una generazione più avanti aduso a incuriosirsi delle novità tecnologiche; con Marietto Parodi, fotografo di mostre attento ai cambiamenti stagionali dell'epidermide; con l'amicizia di Marco Canepa, tecnico del suono e musicista; con il coinvolgimento d'un gruppo rock, i Dirty actions, che per proprio conto aveva già messo in cantiere alcuni numeri di una fanzine (II Siluro d'Europa) ironica e violenta; il Centro Uh! ha acquisito una notevole agibilità del set genovese ove si incrociano le esperienze artistiche che più si confondono nella visibilità urbana. Lo sfondo della musica moderna, il costume e i comportamenti che vi sono legati, parvero subito la sezione ritmica necessaria.
La conferenza che tempo fa Carlo Romano tenne allo Psyco Club su Rock'n Roll e arti plastiche (Marciare non marcire), voluta dal Centro Uh! e dalla Libreria Sileno, altro punto considerevole di elaborazione d'immagine a Genova, venne a favorirne la circolazione e la possibilità d'una sutura con altri ambienti artistici.
Su questa base è avvenuto l'incontro coi membri del Teatro P(h)anico (dove la parentesi stabilisce le ambigue ascendenze ricercate fra Pan e una divinità etrusca) i quali hanno da sempre ricercato nei luoghi dell'urbanesimo le ragioni del pathos cosmico, puntando inoltre su una evidente connotazione musicale oltreché gestuale.
Nelle esperienze del Teatro P(h)anico e del Centro Uh! sono intuibili certe preoccupazioni di sobrietà e vigilanza che se è possibile ricondurre a precise componenti culturali delle rispettive storie, rientrano anche in quel carattere di flemma comunemente attribuito alla città, sede, però, si noti, di grandi esplosioni come quella del giugno del 1960, primo grande fenomeno di rock urbano in Italia, patrimonio di quelli che con eccessiva approssimazione venivano chiamati teddy boys, per quanto fossero le magliette a strisce e non le giacche di foggia edoardiana a suggestionarne la figura, prima che dei partiti antifascisti; e dunque della prima generazione di ascoltatori della musica moderna.
Carlo Romano





Arte o manifestazione privilegiata del tempo, la musica si pone con evidente facilità come ambito privilegiato della performance.
E il soggetto e l'oggetto della comunicazione istantanea, per il tramite dei media più moderni, quelli che danno nome alla nostra epoca, e attraverso la loro mediazione invade la nostra giornata, il nostro tempo.
Il suono della città ne partecipa, e vi si unisce, creando univocamente la musica a noi più contemporanea, che accettando nel proprio statuto il silenzio lo ha contemporaneamente eliminato.
Con la cultura televisiva, dell'immagine e del suono in movimento, il gesto che produce la musica o che ne è generato è stato riconosciuto in tutta la sua fondamentale importanza.
Ponendosi a capo di ricerche condotte in vari campi dell'arte che cerca un intersecarsi dei media, l'attuale situazione della performance genovese come evidenziata da questo programma attraversa in questo momento il campo più specifico della musica d'oggi, nella quale e della quale esprime alcune delle tendenze più interessanti.
In bilico tra arte e negazione di questa (quella negazione che quindi ammette l'oggetto negato, dialetticamente), l'attività del centro Uh! sceglie l'espressione specifica della performance cercando di toglierla dai limiti angusti della galleria d'arte in cui è nata, e da spazi del corpo o della terra che nella body art o nella land art sono altrettanto rigidamente limitativi, come le loro etichette.
È arte povera, ma non povera di mezzi, bensì nei risultati che non vogliono certo assurgere alla "grande musica", come ancora molti la chiamano.
Angelo Pretolani e Roberto Rossini usano sintetizzatore e registratore per un prodotto musicale semplice, ridotto, seppure nella vastità espressiva della musica ripetitiva e della musica minimale.
Sulla scia di George Maciunas e di Fluxus accettano in quest'ambito musicale il non professionismo, il non parassitismo, cercano di imporsi il non elitarismo.
Fanno una musica che «potrei fare anch'io», che «saprebbe fare anche un bambino», come si dice dall'alto.
La fanno però proprio loro, performers. Sono "dilettanti di musica", non fanno musica col principe, ma col pubblico che permette la loro esistenza.
Nel medesimo tempo però offrono in Japanese Match alla musica un'opportunità rara, quella di informare di sé il gesto piuttosto che esserne prodotta.
Uscendo da nastri preregistrati, da sintetizzatori già programmati, da una batteria elettronica precedentemente impostata, la loro musica che ha rinunciato all'intervallo (ripetitiva, priva di interruzioni orizzontali, è povera di intervalli armonici, verticali) e alla moltiplicazione dei ritmi ha il privilegio di creare gli intervalli di esistenza della performance (che avviene durante quella musica) e di imporre il ritmo alla scena e alla gestualità.
È piuttosto nel gruppo più specificatamente musicale, quello dei Dirty Actions, che la musica nasce creata dal gesto.
Il che è ovvio, basterebbe guardare un sassofonista, un batterista, un pianista dai capelli scarmigliati, addirittura il direttore di un'orchestra, il cui gesto è la musica.
Ed è meno ovvio nei confronti della loro performance, quando il gesto attivo dell'attore, diventa, quasi mima, quello di un musicista, e la specificità musicale è al servizio di un rock povero e privo di pretese, un rock "facile" con il suo testo cantato, con il suo ritmo riconoscibile (che può, sempre più ovviamente generare quel gesto del pubblico che batte il tempo seguendo il ritmo).
Un rock minimo che batte il tempo, che annulla il progresso musicale e la hit parade, che esce in punta di piedi e sorridendo dal mercato, usando gli schemi ritmici commerciali per arricchire la propria composizione strumentale, piuttosto che gli esecutori. Il tempo cosi variamente battuto da questi ritmi inconsueti perché troppo consueti, troppo usati e ormai lisi, si vendica finalmente nella terza proposta musicale riunita attorno al Centro Uh!, quella del Teatro alla ricerca del P(h)anico.
Il progresso a cui certe strutture circolari ottocentesche avevano già dato un duro colpo, abbandona sempre più la musica, che lascia quasi definitivamente in qualche caso il tempo che scorre, a lei caro.
Con A concerto for dance and piano, gesto e musica si fondono, ma almeno nel caso di quest'ultima l'identità viene negata del tutto.
È musica bruta, in cui l'aleatorietà che informa di sé tante scelte contemporanee, è davvero lasciata al caso; è musica che non vuoi farsi notare, confondersi priva di identità al teatro e alla danza di cui è compartecipe.
Ripetizione di un frammento, questa musica è a sua volta frammento dell'entropia musicale dell'universo.
Gioca a essere segno nel suo non esserlo. Come se non bastasse si sposa alla fissità quasi aggressiva, perché assolutamente banale, della fotografia immediata. Ha superato la modernità.
Si impone al tempo. Lo batte, con un ritmo qualsiasi.
Michele Mannucci





Nel tracciare un bilancio della ricerca artistica contemporanea a Genova, Rossana Bossaglia ha concluso che nella città non esiste una "scuola" artistica dotata di una propria tradizione e raccolta intorno a una istituzione culturale o a un indirizzo comune di ricerca.
L'affermazione è vera nel senso che a Genova, diversamente che in altre grandi città, alla qualità della ricerca artistica non ha mai fatto riscontro un tessuto di strutture e di istituzioni culturali (università, critica, musei, editoria, gallerie) in grado di sostenerla e di imporla nei canali dell'informazione e del mercato.
Di qui il fenomeno tipicamente genovese della presenza di episodi di ricerca avanzati e precoci, anche a livello internazionale, ma del tutto appartati, e quindi in grado da un lato di svilupparsi con una autonomia e una coerenza altrove impensabili perché immuni dai condizionamenti istituzionali, ma destinati dall'altro a ripiegarsi su sé stessi e come minacciati da una sorta di "non esistenza" per assenza di informazione e di sanzione critica.
Tutto ciò è ben presente agli artisti genovesi e, da qualche tempo, anche all'istituzione pubblica a cui essi fanno riferimento.
Tuttavia il problema di una "scuola" come sistema di organizzazione e di promozione pubblicitaria non ha nulla a che vedere con il fatto che in realtà la ricerca artistica genovese presenta connotazioni ben precise.
A parte la considerazione che fino a qualche tempo fa la ricerca non poteva che essere internazionale oppure non essere, nel corso degli anni settanta è emersa chiaramente, a Genova come in altre situazioni italiane, una sorta di specificità locale, frutto di un intreccio tra la consapevolezza della propria autonomia culturale e l'informazione sui fatti internazionali (naturalmente, sempre al livello dei singoli operatori).
La specificità di questa ricerca scaturisce da un modo particolare di avvertire il disagio della condizione urbana, quello proprio di una città che negli ultimi decenni ha subito un degrado accentuato come conseguenza di una crisi produttiva e sociale che ha prodotto una disgregazione anche fisica, ma nello stesso tempo resta legata a una tradizione assai alta di civiltà metropolitana, a abitudini, strutture e mentalità formatesi negli anni in cui la città è stata protagonista del primo sviluppo industriale e del formarsi di una cultura popolare urbana.
Su questa situazione, atipica nel panorama italiano, si sovrappongono com'è ovvio i modelli più generali e unificanti della civiltà dei consumi con i suoi meccanismi produttivi e i suoi comportamenti: che qui però sono visti nell'ottica stravolta o beffarda della "decadenza", che spiega bene certi tratti neo-espressionisti e neo-dadaisti della ricerca genovese, il suo permanente criticismo e contenutismo.
Altrettanto caratteristica di questa condizione metropolitana è la propensione per la ricerca interlinguistica, per l'analisi del rapporto tra i linguaggi e la loro contaminazione.
Questo avviene sia sul versante dei rapporti tra immagini e linguaggio letterario o pubblicitario, sia operando sui linguaggi che offrono già una situazione multimediale, o per tradizione, come la spettacolarità teatrale e musicale, o perché media tecnologicamente avanzati, come il cinema o il video.
Tra gli esempi più noti e precoci di questa attitudine a intersecare aree di espressione tradizionalmente separate vi è certamente il filone della scrittura visuale, che fa da collegamento tra il momento informale e la successiva stagione concettuale. A questa esperienza chiave, sollecitata anche da alcune importanti presenze teoriche e critiche (ma una storia per date e persone è ancora tutta da definire), devono il loro atteggiamento analitico e critico praticamente tutti gli operatori genovesi, e non solo quelli più 'freddi', ma anche quelli più inclini all'evasione, alla fantasia, al piacere della pittura.
Essa ha inoltre rappresentato una conferma alla preesistente tendenza alla contaminazione, all'incursione nei campi più diversi, anche extra·artistici, e alla loro spregiudicata manipolazione.
Se l'attività di alcuni operatori più anziani come Caminati e Mesciulam rappresenta un riferimento essenziale per la scuola genovese dei performers, una posizione particolare spetta a Beppe Dellepiane, ai suoi interventi sui rifiuti urbani (sia fisici che ideologici) e, sotto il profilo interlinguistico, alle sue sperimentazioni sui rapporti tra vocalità e environment.
A questi precedenti, oltre che a fonti internazionali (spesso direttamente note alla colta pattuglia dei performers genovesi) si deve la preferenza per lo stile freddo e straniato che si propone di ottenere il massimo della spettacolarità e della tensione emotiva non dalla finzione teatrale dell'emotività e della personale " performance" , ma dall'uso distaccato dai mezzi e dal loro lucido e sapiente incastro, che ne sconvolge i codici e ne trae inedite risonanze.
In questo senso le due esperienze dei gruppi raccolti intorno al Centro Uh! e al Teatro del P(h)anico sono molto più affini di quanto i protagonisti vogliano farci credere.
La differenza più marcata, se mai, è con il gruppo più propriamente musicale dei Dirty actions, anche se le loro propensioni intellettualisti· che hanno portato (1981) a lavori in comune con gli altri gruppi.
A sua volta il progressivo sposta· mento dei performers verso l'area rock, muove dal· la constatazione che l'ambito musicale è in realtà l'unico dell'arte moderna in cui la ricerca d'avanguardia si coniuga con i caratteri dello spettacolo di massa, passando quindi attraverso i canali del mercato e l'uso spregiudicato dei media.
Quella che per l'arte pop era stata soprattutto una aspirazione, inconciliabile con il carattere sostanzialmente aristocratico dell'esperienza, e che per la ricerca visiva resta un obiettivo ancora irraggiungibile, (l'applicazione della ricerca visiva è in realtà intensissima ma viene attuata non dagli operatori in prima persona, ma dal design inserito nell'industria) per la nuova musica è quasi la condizione originaria (questo è anche il senso dell'affermazione che il rock è l'unica forma d'arte contemporanea), al punto che essa può ormai trasferirsi impunemente e vittoriosamente nei campi della performance e delle arti visive.
Queste ultime, d'altra parte, hanno una funzione primaria di sperimentazione e di sistemazione, essendo in possesso di strumenti critici già affinati indispensabili per accelerare i processi di integrazione tra le diverse aree espressive, tra i diversi tipi di pubblico e le strutture a cui si rivolgono.
Guido Giubbini


Immagine: Catalogo della mostra "Sezione Ritmica. Arti performative a Genova", ordinatori Angelo Pretolani, Carlo Romano; Genova, Teatro del Falcone, 11-18 marzo 1982

 

 

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